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di ALBERTO CISTERNA*
Le stragi sono uno dei tormenti del Paese. Una sorta di zona buia della coscienza collettiva che, in mancanza di verità plausibili o anche solo accettabili, oscilla pericolosamente tra l’incubo dei complotti e la semplificazione comoda delle tante assoluzioni giudiziarie. Le stragi sono anche il luogo in cui, tranne qualche rara eccezione e qualche flebile speranza, si è sperimentata l’insufficienza della giustizia a penetrare anfratti segreti e a ricostruire fatti di eccezionale gravità. Dopo decenni ignoriamo ancora chi siano i colpevoli di piazza Fontana, se dietro l’esplosivo per Falcone e Borsellino ci siano stati o meno mandanti occulti, se le stragi del 1993 fossero l’avvio o l’epilogo di una squallida trattativa tra Stato e mafia. Questo abisso incolmabile testimonia che gli investigatori o non erano attrezzati per un compito così arduo oppure non sono stati posti nelle condizioni di scrutare fino in fondo gli arcana imperii, i segreti inconfessabili di una società complessa e opaca in cui contiguità e complicità si coagulano e si scompongono a ritmi vertiginosi e secondo logiche mai perfettamente accessibili nelle aule di giustizia. Il processo è il luogo dei fatti, della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, delle certezze e, come tale, mal si presta a ricostruire vicende ibride in cui il lato oscuro del potere manifesta le sue sfuggenti obliquità e i propri turpi disegni di egemonia. È un punto difficile da ammettere, ma anche le sentenze più recenti mostrano con quanta difficoltà lo strumento giudiziario tenta di esplorare fenomeni così complessi e ambigui, siano essi le stragi o il concorso esterno di mafia di un politico eccellente. Ciò posto non si può certo restare inerti e rassegnati ed è importante che la Commissione parlamentare antimafia, dopo circa venti anni da Capaci e via D’Amelio, avverta la necessità di affrontare il nodo politico delle stragi. Georges Clemenceau sentenziò che «la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari» e così le stragi, tutte le stragi, sono state una cosa troppo seria per lasciarle in mano alla mafia. Lo ha detto con chiarezza poche settimane or sono Piero Grasso: nel 1993 “Cosa nostra” è stata probabilmente il mero strumento incaricato di portare a compimento il disegno stragista sul Continente. Sono parole chiare e segnano una svolta nella considerazione “eliocentrica” della mafia, intesa finora come motore immobile intorno al quale sfilano e ruotano i protagonisti politici, istituzionali ed economici del paese. Le stragi non sono delitti come gli altri, ma nella modernità sono sempre e comunque uno strumento politico, ossia il mezzo criminale più efferato per conseguire obiettivi politici. Da questo punto di vista le stragi sono il delitto politico per eccellenza, poiché esse sono immediatamente funzionali ai disegni di qualche porzione delle élite nazionali o internazionali. Il terrore delle stragi, come la guerra, è solo la più feroce arma di una politica tutta orientata al consenso e al potere. Da questo angolo visuale il daimon malvagio che ha profittato o tentato di profittare delle bombe del ’92-’93, proprio perché immerso nella progettualità politica del paese, ossia nel tentativo di conquistare o conservare un’egemonia, deve essere stato per forza sotto gli occhi di tutti, visibile e concreto; il che non vuol dire attuale e vincente. Nessuno è in grado, prove alla mano, di stabilire se l’entità che si è affidata alle stragi abbia vinto o perso la partita. Scrutare a fondo questo grumo è un’operazione complessa e che, purtroppo, sembra eccedere la qualità delle prove oggi a disposizione delle Procure. Ben venga, quindi, l’attività inquirente del Parlamento, faccia la politica ciò che la Costituzione vuole consentendo di approntare commissioni d’indagine; si impegni a decifrare la “verità politica” di quei fatti tragici; individui i disegni di conservazione o di conquista che hanno preceduto e accompagnato la mattanza e dica al Paese se venti anni or sono siamo caduti, senza accorgercene, nel regno delle tenebre o se abbiamo evitato un pericolo mortale. Sembra questo il senso delle parole pronunciate dai magistrati di Caltanissetta e non v’è in esse alcuno scandalo.

*magistrato Direzione nazionale animafia

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