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Una decisione «che non appare coerente con il quadro istruttorio già emerso», nonostante gli accertamenti del caso siano stati svolti in modo sommario per esigenze di speditezza.
Fiat riceve il provvedimento del Tribunale di Melfi che annulla i tre licenziamenti per gli operai accusati di aver bloccato la produzione per protestare contro l’aumento dei ritmi di lavoro, e non va troppo per il sottile, annunciando a stretto giro che nel «più breve tempo possibile verrà presentato un ricorso in opposizione alla decisione» indirizzato al collegio di secondo grado.
I termini di legge cominciano a decorrere dal momento dell’avvenuta notifica quindi entro sabato 21 (dieci giorni esatti) se ne dovrebbe sapere di più, mentre il 23 Antonio Lamorte, Giovanni Barozzino, e Marco Pignatelli dovrebbero tornare sul posto di lavoro.
La notizia è arrivata nella tarda mattinata di ieri dai piani alti del Lingotto dove si dicono sicuri «di aver offerto prove incontrovertibili del blocco volontario delle linee di montaggio, che ha determinato un serio pregiudizio per l’azienda costringendola ad assumere doverosi atti di tutela della libertà di tutti i lavoratori», oltre alla «propria autonomia imprenditoriale».
L’azienda aggiunge che «su questi stessi fatti è stata presentata anche una denuncia in sede penale», senza scendere troppo nei dettagli, ma a oggi non risultano in corso attività d’indagine in questo senso.
Agli atti resta solo il racconto degli otto testimoni sentiti nel corso delle udienze sul ricorso presentato dai legali della Fiom, che in gergo tecnico si chiamano “informatori”, perché tra le altre cose il rito del lavoro non prevede in casi d’urgenza l’obbligo del giuramento prima di deporre, rimesso in tutto e per tutto alla discrezione del giudice di turno.
Fondamentale per la decisione un dettaglio in particolare emerso dalle parole di un collega degli operai, considerato dal giudice nella succinta motivazione del suo decreto, «attendibile» e meritevole di maggiore «fiducia» degli altri per due diversi ordini di motivi.
Da un lato ci sono le mansioni svolte all’interno dello stabilimento, che l’avrebbero portato a essere presente sulla linea di produzione più dei testi portati dalla controparte-azienda, sentiti sulle stesse circostanze, tra i quali l’ingegnere responsabile della gestione dell’impianto Agv (“automated guided vehicles”), ovvero dei “veicoli a guida automatizzata” o carrelli robotizzati.
E dall’altro la rivelazione una «prassi» forse nemmeno conosciuta dall’azienda, se non addirittura «vietata», cosa che lo avrebbe esposto anche a una «possibile sanzione disciplinare».
In sostanza in caso di mancanza di scocche o «anomalie sulla linea» il teste chiave della difesa dei lavoratori ha ammesso di aver provveduto a bloccare di persona in diverse occasioni i carrelli robotizzati, azionando il tasto dell’emergenza per «evitare che si accumulassero» lungo il tragitto, causando varie disfunzioni, tra le quali l’ostruzione degli attraversamenti pedonali.
D’altra parte l’ingegnere responsabile dell’impianto aveva confermato che quando si ferma la produzione il carrello si blocca in automatico fino a quando non viene scaricato, ma aveva aggiunto che «gli addetti non sono autorizzati ad azionare il tasto di emergenza» senza una sua precisa autorizzazione.
Perciò il racconto del primo, in quanto in qualche modo si “autoaccusa”, per restare al gergo giudiziario, è stato ritenuto di «intrinseca attendibilità», come una sincera confessione.
Altri particolari d’interesse evidenziati nelle motivazioni del giudice Emilio Minio sono venuti dalle deposizioni di lavoratori che erano presenti sulla scena dove si sono svolti i fatti perchè prendevano parte al corteo contro l’aumento dei ritmi di produzione durante quel fatidico turno di notte tra il 6 e il 7 luglio scorsi, ma non appartengono alla stessa sigla sindacale di quelli sanzionati (Fiom-Cgil), cosa che avrebbe potuto suscitare delle forme di partecipazione capaci di insinuare il dubbio sulle loro deposizioni,
«Le linee e i relativi carrelli erano già fermi perchè una parte dei lavoratori era in sciopero». Hanno confermato almeno in due. Gli scioperanti secondo la stima apprezzata dal giudice sarebbero stati «circa 50». Quanto basta perchè di fatto la produzione non potesse più andare avanti, quindi risultino smentite le circostanze addebitate ai tre operai licenziati ingiustamente.
Come quando un altro dice di aver chiesto anche al suo delegato di intervenire dopo aver sentito le accuse che venivano lanciate dal responsabile dell’azienda «perchè al posto di quei due» (riferito a Antonio Lamorte e Marco Pignatelli) ci sarebbe potuto essere lui.
Tuttavia, anche se i giudici di secondo grado dovessero ribaltare questa ricostruzione dei fatti, i più attenti fanno notare che il punto decisivo sarebbe un altro, evidenziato dal giudice di prima istanza, nonostante abbia preferito inoltrarsi nel merito delle accuse.
Si chiama «specificità e immutabilità» della contestazione, ed è un principio inviolabile del diritto in materia di contratti e provvedimenti disciplinari, che spesso suggerisce ai datori di lavoro di temporeggiare prima di applicare delle sanzioni ai dipendenti “infedeli”, mentre le sospensioni dei tre operai sarebbero arrivate a distanza di poco più di un giorno dall’episodio del carrello, le motivazioni raccolte in quell’atto sarebbero differenti da quelle presentate dai legali nell’opposizione al ricorso dei legali della Fiom. Un profilo su cui la Cassazione si è espressa già diverse volte finendo quasi sempre per dare torto alle aziende chiamate in causa.
Leo Amato

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