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di SILVIO GAMBINO
Se una razionalità di fondo potesse essere individuata nel trascorrere dei decenni, dei regimi e degli uomini politici, come anche nelle forme organizzative e nelle culture delle popolazioni nel loro relazionarsi con le forme statuali, di cui di volta in volta si dotano (e che legittimano con il proprio voto), vista dal Sud, in conclusione, l’Unità d’Italia racconta di un processo di alto valore storico, una vera e propria sfida allorché la stessa fu progettata dalla intellighentia risorgimentale, dalla ispirazione liberal-democratica, e portata ad esistenza con lungimiranza culturale e politica. Per troppi profili, tuttavia, come si è detto nei contributi precedenti, si tratta di un processo incompiuto, tuttora aperto al divenire delle dinamiche economiche, culturali e politico-istituzionali. Soprattutto ciò è vero con riguardo alla dinamica dei rapporti Nord-Sud. Ripeto una simile sottolineatura per quei (pochi) lettori che hanno voluto commentare/replicare/criticare i miei interventi dei giorni scorsi, affermando che, se poteva condividersene l’analisi, meno chiara appariva loro la prospettiva. Insomma, il che fare. Una breve risposta s’impone, osservandosi come non esistano meccaniche, forme istituzionali ottimali di organizzazione (centrale e territoriale) del potere (federalismo e/o regionalismo che sia), che, adeguatamente utilizzate, possano “colmare i solchi scavati dal tempo”, risolvendo i tanti e gravi problemi che sono stati richiamati. Detto in modo più lineare e immediato, nessuna politica istituzionale che non si riprometta di rappresentare e governare i bisogni (atavici e attuali) delle popolazioni e dei territori e che dunque si fondi su un continuum effettivo fra governati e governanti costituisce, da sola, una politica istituzionale valida ed efficace, oltre che democratica, nella soluzione dei problemi evidenziati. In altri termini, servono uomini (e naturalmente donne), politiche e partiti capaci di interpretare tali bisogni, riconoscere e valorizzare le culture dei territori e delle loro popolazioni, orientando le soluzioni (politiche) secondo griglie ideali che, a loro volta, risultino capaci di apprezzare e valorizzare le distinzioni (e le differenze) fra indirizzi conservativi e orientamenti di sinistra. Parliamo qui, naturalmente, di una sinistra capace di predicare e di praticare, in modo comprensibile per i cittadini, le moderne esigenze/bisogni della eguaglianza (effettiva e non solo formale) e dunque della giustizia sociale. Prima ancora e di più, dunque, a colmare il solco di cui si è detto, serve la cultura e nuove forme di organizzazione sociale e politica, che partano dalle reti delle associazioni presenti in modo diffuso e partecipato sui territori, e continui con i partiti (autoriformati sulla base di una indefettibile democrazia interna) e più in generale con la selezione di rappresentanze all’altezza del governo dei territori e dello Stato. All’altezza sia in termini di competenza sia in termini di trasparenza. Tuttavia, anche dopo aver proceduto in questa direzione, i problemi non risulteranno risolti. Come per magia! Occorre, in breve, colmare quel solco (più o meno profondo) di cui abbiamo parlato più volte, fra Nord e Sud, fra ceti politici autoreferenziali e lontani dal popolo (salvo che per la investitura democratica) e un’attività politica che ritorni a frequentare il territorio, ad ascoltare il popolo nell’articolazione delle sue moderne espressioni. Come la sinistra ha saputo fare per decenni nella fase di transizione dallo Stato monoclasse (borghese) a quello pluriclasse, con effetti assolutamente positivi nel superamento del fascismo, prima, e del consolidamento della democrazia repubblicana, in seguito. Questo tema, come si vede, rinvia alle questioni più volte sottolineate della necessità di riqualificare la politica e di ripensare la selezione delle rappresentanze alle cariche istituzionali (superando la stessa chiusura politica fin qui espressa nei confronti dell’accesso delle donne alle cariche elettive). È la prima delle questioni da affrontare in modo radicale nell’ambito di uno Stato che voglia recuperare pienamente il superamento della democrazia per ceti a favore di una democrazia di massa capace di farsi carico, di rappresentare e integrare le masse nello Stato (Pietro Ingrao ha scritto sul punto belle pagine che occorrerebbe rileggere). Non so invece rispondere a quella obiezione secondo la quale i partiti non esistono più e dunque occorre farsene una ragione, optando per nuove forme di rappresentanza-identificazione di tipo elitario. Come sta avvenendo, e da tempo, nel Paese (e non solo). Una sorta di Fhurerprinzip democratico, se l’ossimoro fosse consentito! In ogni caso, una democrazia che si riduce e s’impoverisce nello scegliere un capo e nell’osannarne le mirabili gesta (tutte le gesta, non solo quelle politiche). Tanto ricordato del ruolo fondamentale della cultura e della politica, rimane comunque che una riflessione può farsi con riguardo all’esigenza di forme istituzionali politicamente adeguate a rappresentare la volontà del superamento dello stallo politico-istituzionale nel quale da tempo il Paese si è ricacciato. Per tali forme istituzionali si può ipotizzare il ricorso a intese interregionali forti (e in qualche modo obbligatorie), ovvero a macro-regioni già ipotizzate dagli studiosi vicini alla Fondazione Agnelli. In ambedue i casi saremmo in presenza di un aggravamento procedurale dovuto al necessario procedimento di revisione costituzionale. Si tratterebbe, in questa ottica, di progettare e mettere in campo un nuovo soggetto istituzionale, un “vero e proprio Stato federale del Mezzogiorno” (Giorgio Ruffolo). Un’idea, quest’ultima, che porta a concludenza operativa progettazioni suggerite da importanti conoscitori della questione meridionale, come Guido Dorso e Gaetano Salvemini, e che suggerisce forme autonome di governo del Mezzogiorno, naturalmente ancorate ad un quadro costituzionale “autenticamente federalista”. L’idea, a chi scrive, pare meritevole di riflessione collettiva per una principale ragione. Se risultasse convincente ai più l’idea pessimista di chi scrive circa la formalizzazione federale di un modello di Stato che congelasse l’attuale mappa dei poteri allocati a livello regionale dalla riforma costituzionale, più che un “partito del sud”, che non sarebbe in questo contesto la soluzione più adeguata e in ogni caso non basterebbe da solo a farsi carico della complessità dei problemi in campo, si tratterebbe di superare l’attuale regionalismo “che ha frammentato la questione meridionale, favorendo la formazione di clientele locali e perdendo di vista l’unità del problema (G. Ruffolo), in favore di un “governo del Mezzogiorno come soggetto politico unitario”, capace di affrontarne le grandi tematiche di struttura (economica, politica e istituzionale) e di prospettiva, dal degrado delle grandi città al radicamento sul territorio dei giovani (talentuosi e non) sulla base di opportunità economiche da assistere nella loro progettazione/implementazione, dalla protezione e gestione dei beni pubblici e della valorizzazione ambientale, all’avvio di una politica industriale capace di sottrarsi ai condizionamenti mafiosi e di porsi come cerniera nel mercato meridionale e in quello dell’area mediterranea, più in generale, alla valorizzazione strategica del capitale umano e a questo fine da una politica convinta di sostegno della ricerca e dell’istruzione pubblica. La novità più significativa di una simile idea risiede nel superamento delle attuali concrezioni presenti (ancorché in forme e intensità diverse) nel regionalismo meridionale, a favore di una nuova intesa, di un nuovo patto politico e istituzionale che individua l’ambito ottimale per il governo degli interessi in campo in ragione della dimensione degli interessi e dunque allargandone la prospettiva al macroterritorio meridionale. Ben pensato e meglio guidato, un simile processo potrebbe accompagnare il ricambio della classe politica meridionale avviando la formazione di un nuovo ceto politico regionale (competente, giovanile, orientato politicamente) con capacità di governo adeguate alle sfide di un territorio allargato che, nei fatti, coincide più o meno con l’ambito territoriale di sovranità dell’antico Regno delle due Sicilie (dal basso Lazio fino alle regioni meridionali e alla Sicilia, includendo l’Abruzzo e il Molise). Un simile progetto innovativo di rappresentanza meridionale, da una parte, si porrebbe in positiva competizione territoriale con la rappresentanza espressa in ampie aree del Nord da parte della Lega, e, al contempo, presenterebbe in modo maggiormente credibile il Mezzogiorno del Paese al consesso europeo (degli attuali 27 Stati e di quelli che in seguito si aggiungeranno all’Unione Europea) e al Partenariato euro-mediterraneo. L’idea naturalmente potrà urtare la sensibilità del ceto politico attuale, di taglia maggiormente provinciale. Se così fosse vorrebbe dire che si tratta effettivamente di una buona idea e che vi sarebbe tutto lo spazio per avviare una riflessione allargata, tesa a coinvolgere il mondo delle associazioni, quello dei partiti (naturalmente di quei soli fra di essi che si avvedono delle relative inadeguatezze rappresentative) e degli intellettuali. Un simile progetto guarderebbe all’Europa come nuovo ambito dimensionale e istituzionale al quale aprirsi per la soluzione dei problemi locali. Esso assicurerebbe alla stessa unità del Paese di potersi rinsaldare sulla base di una unità che valorizza i territori, li rinsalda in una rete solidaristica, li riconosce quali portatori di culture proprie da proteggere, li rafforza in un inedito e più forte federalismo che guarda alla stessa Europa misurandosi con le realtà regionali più mature. Parlarne significherebbe già ammettere che le soluzioni riformistiche fin qui pensate dal ceto politico nazionale non appaiono adeguate alle sfide dei territori. Fare dei passi in avanti si potrebbe. Forse però occorrerebbe prima una nuova legge elettorale, che consentisse, unitamente alla piena legittimazione politica delle rappresentanze parlamentari, un pluralismo rappresentativo svincolato dal condizionamento dei vertici di partito nella formazione delle liste elettorali. Come ora non è, secondo un giudizio che direi generale!

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