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VA alla Basilicata, tra tutte le regioni italiane, la maglia nera per la durata dei processi civili. Il dato non è nuovo ma particolarmente preoccupante. L’elaborazione (riferita al 2007, ultimo anno statisticamente disponibile) della Cgia di Mestre, infatti, mette in relazione le lungaggini della giustizia italiana con i danni che ne derivano per le imprese: in tutto il Paese questo ha un costo di oltre 2,6 miliardi di euro. Il calcolo è ottenuto dalla somma di tutti i costi di cui gli imprenditori italiani devono farsi carico per i ritardi nelle procedure fallimentari (1,03 mld), i costi dei ritardi nelle procedure civili di primo e secondo grado (1,09 mld) e le spese burocratiche relative alle sole procedure fallimentari (532 milioni di euro). Nel 2007, a fronte di 972.555 procedimenti pendenti, la durata media di un processo civile di primo grado è stata di 904 giorni (2 anni, 5 mesi e 21 giorni). Con poco più di 51.000 procedimenti pendenti, la durata dei processi civili di secondo grado è stata mediamente di 822 giorni (pari a 2 anni e 3 mesi) e per una procedura fallimentare addirittura di 3.035 giorni (8 anni, 3 mesi e 23 giorni). A livello territoriale – sottolinea la Cgia – la situazione è preoccupante nel Mezzogiorno: la performance peggiore spetta proprio alla Basilicata. In regione nel 2007 la durata media dei processi civili di primo grado è stata di 1.463 giorni. La regione più efficiente, invece, è la Valle d’Aosta con una durata media di 614 giorni. Il cattivo funzionamento della giustizia costituisce un grosso ostacolo che allontana gli investitori. Si capisce che in una regione come la Basilicata, già alle prese con tanti altri problemi di ben altra natura, e dal tessuto economico particolarmente sofferente, questo record negativo non fa che penalizzare ulteriormente il territorio. Di casi concreti ce ne sono tanti. Come quello che si è trovato a vivere Pierangelo Panni titolare della “Panni & co srl” di Tito Scalo: una storia a dir poco assurda di cui il Quotidiana si era già occupato di recente. Quella di Pierangelo Panni è un vero e proprio fiore all’occhiello delle aziende lucane. Dal 1990 lavora con la Eni Saipem, multinazionale che si occupa di estrazioni petrolifere in tutto il mondo con una tipologia di contratto che si definisce aperto: il che significa che la società è tenuta a intervenire per ogni attività su piattaforme in mare o centrali a terra, senza bisogno di espletare bandi o gare. Dà lavoro a 30 dipendenti e si tratta di figure professionali specializzate. Un “tesoro” per una zona industriale che negli ultimi anni ha fatto registrare tanti decessi. Anche perché l’Eni non fa di certo mancare le commesse. Ma da un pò di tempo a questa parte le cose per il capace imprenditore si sono messe molto male. E la crisi questa volta non c’entra niente. Il dramma è iniziato nell’aprile del 2008 quando la Prefettura di Potenza non ha rilasciato il consueto certificato antimafia che Eni richiede alle ditte che con cui lavora. In 18 anni di attività continuata una cosa del genere non era mai successo. E questo perché all’improvviso la Prefettura di Potenza tira fuori un vecchio procedimento che ha interessato l’imprenditore. E’ lui stesso a raccontarlo: «Un litigio con un ex dipendente – spiega Panni – che mi aveva creato diversi problemi. Abbiamo avuto un diverbio. Lo accusavo anche di aver sottratto del materiale dall’azienda e così gli ho detto che per il bene di tutti era meglio che si dimettesse. Lui aveva un registratore in tasca emi ha fatto causa. Sono stato condannato e mi hanno accusato di estorsione. Ma era un episodio che pensavo chiuso». Il fatto risale a ben 14 anni fa. E fino a quel momento non aveva mai impedito il regolare rilascio da parte della Prefettura del certificato antimafia. Tanto che, poco più di un mese dopo, è la stessa Prefettura a riconoscere l’errore. L’ufficio territoriale del governo scrive una nota all’Eni Saipem per spiegare la situazione. Ma è troppo tardi. La multinazionale, chiaramente, ha già provveduto a sostituire l’impresa affidando i ben 15 cantieri a varie ditte. Per Panni e la sua squadra è una vero e proprio dramma. Il fatturato dell’azienda si ridimensiona notevolmente, passando da 4 milioni di euro a 400.000. La collaborazione con Eni è ripartita ma i volumi sono comunque molto limitati rispetto agli anni passati. E’ il sogno sapientemente costruito in 18 anni di attività che si infrange contro il muro alzato dallo Stato. Pierangelo Panni ha chiesto un risarcimento danni al ministero della Difesa e degli Interni. Ma le cose vanno molto a rilento. La prima udienza c’è stata solo lo scorso febbraio. «Ho scritto inutilmente – racconta ancora – a presidente del Consiglio e della Repubblica, ma non ho avuto neanche il piacere della risposta». Di questo passo le cose per l’azienda andranno sempre peggio. La disponibilità di un risarcimento danni darebbe all’imprenditore la possibilità di effettuare un investimento di salvataggio. Ma il procedimento è ancora in alto mare. E Panni si trova nella drammatica condizione di chi avrebbe le potenzialità di realizzare un impero ma che per ora rischia di dovere licenziare personale specializzato, che un giorno, a causa conclusa, non potrebbe più ritrovare sul mercato. E nel frattempo il tempo passa allontanando la giustizia lucana dall’obiettivo di efficienza.

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