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di GIUSEPPE DE BARTOLO
Nonostante l’inasprimento dei requisiti d’accesso alla quiescenza, la spesa previdenziale nel 2009 è aumentata di un punto percentuale rispetto al PIL, con un incremento del 4,3% rispetto allo scorso anno. Questi dati si colgono dalla “Relazione generale sulla situazione economica del Paese”, diffusa nelle scorse settimane, dalla quale emergono tra l’altro due tratti interessanti: un’Italia a due velocità per quanto riguarda i redditi pensionistici, con il Nord e il Centro che sovrastano il Sud di quasi venti punti percentuali, e la prevalenza delle pensioni di vecchiaia (11,4 milioni di pensionati). Con l’ultima manovra finanziaria da 25 miliardi, che nelle intenzioni del governo dovrebbe portare il deficit al 2,7% del PIL nel 2012, è continuata la demolizione del nostro sistema previdenziale ispirato ai criteri keynesiani. Dal 2012 per le donne del pubblico impiego l’età alla pensione di vecchiaia salirà a 65 anni come richiesto dall’Europa; dal 2015 il pensionamento sarà adeguato all’aumento della speranza di vita e questo adeguamento addirittura avverrà ogni cinque anni, in modo tale che nel 2050 si andrà in pensione per vecchiaia a 68 anni e mezzo. Questo meccanismo si applicherà anche per le pensioni di anzianità e per quelle sociali; rimarrà invece inalterata la soglia dei 40 anni di contributi. Se si guarda solo alla demografia questi provvedimenti sarebbero corretti. Infatti, per effetto della denatalità si vanno assottigliando le classi in età lavorativa e, grazie all’aumento eccezionale della sopravvivenza, l’Italia si caratterizzerà sempre di più per l’invecchiamento della sua popolazione. Tutto ciò, secondo i demolitori del welfare, porterebbe alla insostenibilità del sistema previdenziale, per cui, per salvare il patto fra le generazioni dei padri e dei figli, sarebbe necessario lavorare tutti di più e più a lungo nella vita, legando, come abbiamo visto prima, la pensione alla aspettativa di vita. In questa nota cercheremo di mettere in evidenza alcune debolezze di tutto questo impianto, facendo nostre anche alcune posizioni che l’economista Giovanni Mazzetti ha illustrato in uno suo recente libro. La dinamica demografica, riducendo il numero degli attivi e facendo crescere i pensionati, sarebbe dunque la causa della crisi del sistema previdenziale. Questo non è vero perché, com’è noto, lo straordinario sviluppo economico ha svincolato la produzione della ricchezza dalla quantità di lavoro erogata, facendola dipendere dalla sua produttività. Un altro elemento che ha contribuito a formare il senso comune prevalente oggi è il seguente: mentre da un punto di vista economico sarebbe razionale accantonare risparmi per sé per costituirsi eventualmente una pensione attraverso un fondo (sistema a capitalizzazione) non sarebbe invece economicamente sensato contribuire al mantenimento di chi va in pensione, aspettandosi di ricevere un analogo trattamento in futuro (sistema a ripartizione). Nel primo caso i soldi si conserverebbero o addirittura crescerebbero; nel secondo caso i soldi, attraverso la gestione dello Stato, sarebbero soggetti a sperpero e quant’altro. La storia ci dà, invece, esempi che vanno tutti a favore del sistema a ripartizione che, com’è noto, si caratterizza per avere una base finanziaria più solida e più ampia di un sistema a capitalizzazione, grazie alla capacità di una comunità a produrre reddito, grazie alle condizioni materiali e culturali create dalle generazioni precedenti e alla capacità dello Stato di effettuare i trasferimenti necessari dai produttori ai pensionati. Al contrario, i capitali di un sistema a capitalizzazione sono sottoposti ai rischi dei mercati. I demolitori del sistema previdenziale affermano di essere preoccupati non per l’oggi ma per il futuro in quanto, con la riduzione delle nascite e l’aumento della vita media, nel giro di alcuni decenni si avrebbe un forte squilibrio fra attivi e ultrasessantacinquenni. Questo è verosimile se si considera il semplice rapporto tra produttori e dipendenti, le cose cambiano, invece, se s’introduce nell’indice di dipendenza la misura della produttività del lavoro che come sappiamo nell’ultimo mezzo secolo è cresciuta vertiginosamente. Gli avversari della previdenza sono ossessionati, altresì, dal vincolo di bilancio del sistema pensionistico che può essere così sintetizzato: se il numero degli attivi rispetto ai pensionati si riduce drasticamente, per mantenere il bilancio in equilibrio o si raddoppia il livello dei contributi sugli attivi oppure si dimezzano le prestazioni. Di conseguenza al crescere del numero degli anziani non dovrebbero crescere le prestazioni complessive, dando ad ognuno via via di meno. Le cose però non stanno proprio così: è vero che le pensioni vengono pagate con il reddito corrente, ma è altrettanto vero che l’ammontare del reddito è a sua volta condizionato dalla spesa in pensioni; è vero che i beni e servizi inclusi nel Welfare sono resi possibili dalla crescita del PIL, ma è anche vero che l’aumento delle spese sociali costituisce un presupposto della crescita del PIL medesimo. Ci troviamo, cioè, di fronte a un processo circolare. In definitiva, possiamo concludere con Mazzetti che il continuo aumento della produttività del lavoro confuta qualsiasi ipotesi di sviluppo che pretenda di poggiare su tagli della spesa pubblica e su sacrifici economici; si tratta semmai di far dispiegare appieno le capacità produttive esistenti e godere dei frutti garantiti dalla crescente produttività in forme meno distruttive. Però, purtroppo, le cose stanno andando inesorabilmente in una direzione che penalizzerà sempre di più sia i padri che i figli.

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