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di FRANCO CIMINO
Attendere. In Italia si attende sempre. Qualcosa. Qualcuno. Una notizia. Un fatto. Che ci aiuti. Ci salvi. Ci faccia sperare. Tante volte le attese sono andate a vuoto. Di recente quella del sei al Superenalotto. Ancora nulla. Ma l’attesa più “attesa”, è stata quella che ha tenuto in ansia l’Italia, per il discorso che domenica sera ha tenuto Gianfranco Fini, protagonista assoluto dell’attuale politica. E ciò in ragione di tre elementi. La ribellione, aperta e irriverente, a Berlusconi e l’appartamento a Montecarlo sono i primi due. Il terzo, probabilmente il più importante, è il silenzio, cui il presidente della Camera si era costretto da molte settimane. Era evidente che quanto avrebbe detto a Mirabello, avrebbe potuto squarciare i veli che annebbiano la vita politica e chiarito molte cose del suo futuro. Dove “suo” può riguardare indifferentemente sia il futuro dell’Italia che quello personale di Fini. Qualsiasi cosa avrebbe detto. Noi abbiamo provato a immaginare, così per gioco, quale Fini si sarebbe potuto presentare al Paese, così che la nostre attesa personale si riempisse di maggiore tensione. Vediamolo. Il presidente della Camera, intimorito dall’assalto mediatico sulla vicenda Montecarlo e sugli affari di famiglia, che sembrano attendere altre rivelazioni, come quasi tatticamente anticipato da Il Giornale, avrebbe potuto ribadire la sua appartenenza al Pdl e la fedeltà a un governo che volesse rafforzare l’azione programmatica approvata dagli elettori. In cambio Berlusconi – sempre vincente sul terreno della battaglia aperta alla sua persona e al suo potere – avrebbe concesso il proseguimento della Legislatura, la promessa di un congresso per le regole in tempi brevi, la rinuncia a “processare” i tre uomini di Fini mandati ai probiviri, la cancellazione delle sue parole circa l’avvenuta espulsione dell’ex leader di Alleanza Nazionale, il ritiro della legge, già approvata al Senato, sul processo breve, la sua capacità di persuasione sui “monelli” de Il Giornale, affinché cessi la gogna mediatica che sta disturbando, e parecchio, l’immagine buona che Fini si è costruito con grandi sacrifici. Questo quadro avrebbe consentito al “ribelle” di mantenere Futuro e Libertà quale corrente autorizzata; di non dover spiegare, oltre le sue stesse affermazioni, la vicenda della casa e del cognato; di mantenere, senza alcuna delegittimazione, la carica ricoperta; di poter sperare che il tempo ancora lungo a disposizione gli consenta di recuperare la possibilità di succedere a Berlusconi, essendo la Presidenza della Repubblica un obbiettivo di conseguenza perduto. L’altro quadro, alternativo, avrebbe potuto rappresentarsi così: Gianfranco Fini, con la durezza espressiva del suo discorso all’ultima Direzione del Pdl, nella Roma di primavera, conferma il suo distacco dal capo del partito, definendolo appunto capo e non leader; respinge la sua immodificabile concezione proprietaria del partito e personalistica del potere, quale assolutamente incompatibile con la cultura politica maturata dal presidente della Camera in questi ultimi anni; ripropone i punti salienti di questa nuova cultura, che oggettivamente lo portano al Centro, inteso quale filosofia politica liberale, distante anni luce da un liberismo arcaico e senza regole, dominato esclusivamente dalla forza del mercato e dalla concezione delle istituzioni come fastidio al processo di libera affermazione dell’individualismo. Ribadisce, altresì, con nettezza, che la Democrazia non possa prescindere dalla questione morale, la quale deve essere il primo intervento da realizzare per moralizzare la politica, rinnovare la classe dirigente, rafforzare le istituzioni. A partire dagli enti locali, la cui irrobustita autonomia rappresenta l’antidoto alla prevedibile degenerazione del federalismo così come è stato concepito dalla Lega e subito dal Pdl. Per dare forza e credibilità al suo dire, Gianfranco Fini, avrebbe potuto parlare con sincerità della vicenda Montecarlo e delle attività dei familiari acquisiti. Avrebbe potuto dire semplicemente che l’accaduto è uno scandalo; che è grave che un politico di alto livello si sia distratto su una simile vicenda, della quale non aveva previsto la gravità. E che l’accaduto è frutto della comprensibile debolezza che pure gli uomini di potere avvertono nei confronti di sentimenti forti e invasivi; che ha sbagliato a concedere fiducia alle persone amate e che provvederà concretamente a riparare il danno. Avrebbe potuto chiedere scusa assicurando che egli è, e resterà, l’uomo pulito che è sempre stato. Inoltre, avrebbe potuto comunicare che per costruire un processo nuovo e liberante la politica italiana costituirà un nuovo partito. Che non sarà il suo personale o l’ennesimo piccolo involucro della dispersione ideologica, ma, per il concorso con altri, un grande partito che abbia l’ambizione, anche con provvisorie alleanze, di guidare l’Italia verso il “futuro e la libertà”. Infine, per questa ragione e solo per questa, si sarebbe dimesso subito da presidente della Camera. E che arrivino le elezioni! Che non sono l’inferno se i cittadini saranno messi nella condizione di capire e di scegliere liberamente. L’inferno, che abbiamo già conosciuto, è l’ingovernabilità, che per mantenersi in piedi ha bisogno continuamente di mediocri compromessi e di grande ipocrisia, oltre che dell’intervento concreto delle sotterranee forze nocive al Paese. E sull’universale disgusto verso l’attuale legge elettorale, il nuovo leader avrebbe potuto dire che un minuto prima delle sue dimissioni, coraggiosamente porterà in aula una proposta di legge, provvisoria e temporanea, contenente un breve, unico articolo: l’elettore può esprimere il voto di lista e una o due preferenze tra i candidati elencati. Pensavamo che uno di questi due Fini sarebbe venuto fuori da quell’attesa spasmodica. Un terzo non sarebbe potuto esistere, se non nel pallido spettatore del proprio funerale politico. Invece, con una operazione dialettica difficilmente uguagliabile, ha compiuto un piccolo capolavoro di tatticismo politico. Ha mescolato i due Fini ipotizzati, scegliendo di questi i lati più convenienti ha evitato di esprimersi su quelli più difficili. In questo modo ha creato un’agitazione strana nello stesso mare, quello del centrodestra. Restituire il cerino acceso a Berlusconi, pensando di scaricargli la responsabilità di interrompere la legislatura oppure l’umiliazione di subire la terza gamba del tavolo di governo, è operazione che contiene una certa ingenuità. Perché di fatto gli si restituisce il potere di decidere intorno al suo interesse, diciamo pure politico. Se gli converrà, continuerà con quel governo, dirà che la maggioranza è comunque quella uscita dal voto, che il distacco di Futuro e Libertà è un puro atto dialettico, che il programma resta invariato e che proseguirà a rendere più forte il Pdl e il centrodestra, la cui leadership è sempre più saldamente nelle sue mani come documentano i sondaggi. Al contrario se, spinto da Bossi sulla convenienza del voto anticipato, sospetterà che l’iniziativa finiana vorrà logorarlo, indebolendo la capacità del suo governo, con l’obiettivo finale di vederlo sostituito da una congiura di palazzo, non ci saranno santi e Napolitano che terranno. Troverà il modo di sciogliere tutto, compreso il Parlamento. Il Cavaliere sa di possedere due qualità eccezionali: l’imprevedibilità delle sue azioni e il vittimismo. Non gli sarà difficile farle valere su quel vecchio tavolo in cui tutti coloro i quali lo odiano non sanno mettersi insieme, soprattutto a sostegno di un leader carismatico e forte quanto lui. Un altro nuovo regalo? Forse. Ma se Fini, Casini e Rutelli.

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