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di FRANCO CIMINO
Sarkozy non è Hitler, ma i rom e gli immigrati non sono gli scarti dell’umanità I toni e i riferimenti storici che la Reding , la signora di ferro della Commissione europea, ha usato per condannare le misure adottate dal governo francese nei confronti dei rom , probabilmente, come dice il presidente Barroso, sono sbagliati. Il che significa che non lo è la sostanza degli argomenti e i motivi che la ispirano. Il paragone con le deportazioni di Hitler è naturalmente inaccettabile, perché l’orrore hitleriano è intriso della cultura della morte e l’odio razziale, che l’accompagna, è nucleo dell’inaccettabile principio della superiorità della razza. Tuttavia, il fatto che l’azione di un Paese sia rivolta ad una comunità, alla sua storia e natura, alla sua cultura e alle sue origini, comunque spiegate, è sicuramente contrastante i principi fondativi della nuova Europa, nata dalla stupidità della Seconda guerra mondiale e dall’orrore nazista che migliaia di rom siano trasferiti in confortevoli autobus o in aereo nella lontana Romania e non nei campi di concentramento, che li si lasci vivi invece che spedirli ai forni crematori, di certo non è un dettaglio ma egualmente non cancella il problema. E neppure riduce lo spessore del vero pericolo prodotto dall’iniziativa parigina. Il problema è come dare sicurezza, economica e sociale, alle nazioni invase da milioni di “stranieri”. Persone costrette dalla vita a cercare il pane dove si possa trovarlo e sicurezza, economica e sociale, nei paesi in cui essa è garantita. Come si nota, dal problema iniziale nasce il secondo senza alcuna interruzione . E’ un continuum inarrestabile. La sicurezza e la vita di milioni di esseri umani che non hanno nulla, né lavoro, né casa, né cibo, né istruzione, né salute, non è diritto minore rispetto a quello di chi in un posto vi è nato e ci vive. L’Europa, e l’Europa cristiana, nata dalle macerie belliche e dalle divisione tra Stati e dall’odio tra popoli, è l’Europa dei popoli, la Nazione unitaria che unisce tante nazioni, il territorio immenso che supera i confini della politica e dell’economia. E’ un grande paese in cui tutti hanno eguali diritti e uguale dignità. Gli uni e l’altra si chiamano cittadinanza. Se questo principio risulta immodificabile, l’Europa deve pensare europeo e agire di conseguenza, ponendosi, finalmente e concretamente, il problema di come dare una casa in un’unica patria a tutti. Il ritardo con cui si procede su questo terreno reca il rischio del fallimento imminente del progetto Europa, su cui è fondato quello più grande : la costruzione di un mondo che le somigli. Nel quale la pace sia la diretta conseguenza della cancellazione dell’odio e delle divisioni etniche, religiose, economiche e territoriali. Un mondo in cui non vi sia più la guerra permanente tra palestinesi e israeliani per il semplice fatto che non vi sarà più la prima materia del contendere, il territorio e il dominio su di esso. La troppa frettolosa solidarietà unanimemente offerta ieri, nell’ultimo vertice di Bruxelles, dai leader europei – fortemente caldeggiata dal nostro presidente del Consiglio- al presidente francese, non è un semplice atto di cortesia. Nasconde invece la tentazione di imitarlo, la tendenza a proseguire lungo quella strada che accentua gli egoismi ed estende le lacerazioni. Ripristina in qualche modo l’istinto primordiale a concepire l’altro, lo straniero, quale diverso. E come un problema, un fastidio, una minaccia. Progressivamente si farà strada quell’idea bestiale che evidentemente il tempo non ha cancellato dalla pelle dell’Europa. E cioè che vi siano popoli diversi in ragione della loro etnia, della loro origine storica e antropologica, e che per ciò stesso non esista l’uguaglianza tra i popoli. Se c’è un popolo senza diritti, quindi non esiste il diritto. Se c’è un popolo che non è uguale, vuol dire che ce n’è qualcuno (e perché, no uno soltanto?) che è superiore. E superiore perché ha il potere, la bellezza, l’ordine, la forza, la ricchezza. Allora, rischiamo o no di restare nel luogo dal quale pensavamo di essere fuggiti sessantacinque anni fa? Come per i moderni autoritarismi, che non hanno bisogno di armi e stivaloni per imporsi, anche sul terreno della discriminazione razziale non c’è bisogno del gas e dei forni crematori per escludere intere comunità dalla democrazia. Se milioni di bambini non andranno a scuola, migliaia di anziani moriranno con i primi freddi, migliaia di famiglie non avranno una casa e milioni di persone un lavoro, cambia qualcosa rispetto al sacro principio che i popoli e le persone debbano godere di ogni diritto? E cambia la ragione del diritto se tra le genti sfortunate, a centinaia, ogni giorno, muoiono, dimenticati, per fame o tra le onde del mare? Cambia qualcosa, se per salvare i propri connazionali, e il proprio potere, si lasciano i miserabili in balia della sorte ? L’Europa cristiana non può non dare risposte. E l’Italia cristiana non può restare in silenzio. Anche se non c’è bisogno di ricorrere a Dio per esprimere quel no chiaro e forte che si trova dentro la natura umana. Nel chiudere questa riflessione, la mente mi si apre sulla vicenda degli spari dalla motovedetta libica (dono del nostro governo) a una imbarcazione italiana. Si è discusso in questi giorni sull’incidente diplomatico e sul presunto torto che avrebbe consumato contro di noi il colonnello Gheddafi , quel campione di libertà che Berlusconi si è inventato. Nessuno che abbia riflettuto sulla giustificazione addotta: «Abbiamo sparato perché pensavamo fossero clandestini». E se fosse questo il motivo per il quale sempre meno immigrati giungono sulle nostre coste? Se fosse questo, e non la splendida politica sulla sicurezza?

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