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L’omicidio Gianfredi. La morte di marito e moglie nell’agguato di Parco Aurora a Potenza il 29 aprile del 1997. È questo il peso che Alessandro D’Amato si portava sulla coscienza. Lo sguardo di due bimbi sul sedile posteriore, atterriti da quell’esplosione improvvisa di violenza, la raffica di colpi contro il padre, l’ultimo per cancellargli i connotati che si allarga oltre il naso e colpisce al petto la madre, freddandoli entrambi.
Parla il “compare” di Marco Ugo Cassotta, e le sue parole riempiono pagine e pagine di verbale. Si accusa di efferati delitti, come l’omicidio del vecchio amico e di quel ragazzo appena ventenne, Vito Pinto, scomparso da Melfi il 15 luglio del 1995.
Allora avevano poco più che vent’anni anche D’Amato e il capo di quel gruppo che aveva dichiarato guerra al clan egemone del vulture melfese, gli eredi della Nuova camorra organizzata.
C’era da vendicare l’omicidio di Ofelio Antonio Cassotta, brutalizzato nel luglio del 1991, e l’ambizione di sovvertire le vecchie gerarchie. C’era un gruppo di Pignola e uno di Potenza che si volevano mettere in proprio, e così è nata l’alleanza battezzata “famiglia basilisca”.
Sarebbe stata un’ascesa segnata dal sangue, e a Potenza ne avrebbe fatto le spese proprio Peppino Gianfredi. D’altronde che si sentisse minacciato da questi che si andavano facendo strada lo avevano raccontato diversi testimoni.
«Come vai dicendo che devi ammazzare tutta la città, che mi devo cavare un fosso; perchè non siete venuti tu e i melfitani? Vi stavo aspettando».
Queste sarebbero state le parole di Gianfredi secondo il resoconto di uno dei presenti all’aggressione subita pochi giorni prima dell’agguato da un “battitore libero” dei basilischi, Gennaro Cappiello, che per quel duplice omicidio avrebbe accusato anche il marito del pm che conduceva le indagini, Felicia Genovese, per poi subire un processo a sua volta da cui è uscito assolto solo nel 2007.
Un altro che ha assistito alla scena racconta che Gianfredi aveva rimproverato a Cappiello di aver parlato male dei suoi amici melfitani e che se solo lo avessero saputo sarebbero stati loro a scavargli la fossa.
Sì, Gianfredi non frequentava la parrocchia, e mentre i suoi nemici preparavano le armi, la Direzione distrettuale antimafia aveva messo assieme una serie di elementi sul suo conto, per lo più dichiarazioni di un pentito sempre di Melfi, Salvatore Calabrese, che lo aveva descritto come una persona di elevata caratura criminale, capace di gestire tanto rapporti con la mala che ambienti dall’apparenza al di sopra di ogni sospetto.
«Un uomo di rispetto», avrebbe raccontato un altro collaboratore di giustizia, «battezzato e rimpiazzato dai calabresi» perchè tenesse «l’ordine in città», che alla fine degli anni ’80 avrebbe fornito l’acido per sciogliere i corpi delle vittime che dovevano scomparire ai “corleonesi” di Palermo, quelli del clan dei fratelli Graviano.
Ma le manette sarebbero scattate troppo tardi. Gianfredi aveva sempre visto il carcere da lontano.
Il 28 aprile del 1997 Alessandro D’Amato avrebbe fatto parte del gruppo di fuoco che attendeva che facesse ritorno a casa. Sarebbe stato lui stesso a sparare sotto una pioggia incessante che non è riuscita ad attutire il rumore degli spari.
A organizzare l’esecuzione sarebbe stato Antonio Cossidente, già arrestato nel 2006 proprio per questo delitto, ma scarcerato dal Tribunale del riesame per mancanza di indizi.
Contro di lui le testimonianze di almeno tre persone, che hanno riferito cose per sentito dire, ma mai nessuno di quelli che erano presenti quella sera aveva mai parlato prima d’ora, anche perchè si tratta di accusarsi di un duplice omicidio e la pena prevista è sempre l’ergastolo.
Il lavoro degli investigatori in questi giorni si è concentrato nella ricerca di riscontri al racconto di D’Amato. Le indagini sul caso erano ferme agli accertamenti tecnici irripetibili su alcuni mozziconi di sigaretta trovati dentro l’auto usata dal commando, e ritrovata due giorni dopo il delitto verso contrada Macchia Romana, in prossimità della statale Potenza-Melfi. Il confronto del Dna con quello di Cossidente e altri tre sospettati, Franco Rufrano, il suo braccio destro, Carmine Campanella, il più grosso spacciatore di cocaina sulla piazza, e Leonardo Numida Stolfi, che era risultato positivo al test del guanto di paraffina la sera dell’agguato, non aveva dato i risultati sperati.
Tra le armi che sarebbero state rinvenute a Melfi su indicazione di D’Amato sembra che non ci siano quelle utilizzate per l’omicidio dei coniugi Gianfredi, quindi per valutare la sua credibilità molto dipenderà dai dettagli della ricostruzione.
E proprio sulle armi potrebbe aprirsi il capitolo legato alle complicità e il movente del delitto.
Tra gli atti dell’indagine c’è già il racconto di un pentito che ha riferito di aver consegnato un fucile a pompa dello stesso tipo di quello utilizzato dal commando pochi giorni prima del 29 aprile, nelle mani del boss di Pignola, Saverio Riviezzi, sempre del clan dei basilischi, che era in compagnia di Marco Ugo Cassotta, suo fratello Massimo, e un altra persona che non è riuscito a identificare. Quell’uomo potrebbe essere stato D’Amato, e se dovesse confermare quella circostanza vorrebbe dire che la decisione di uccidere Gianfredi sarebbe stata presa al di fuori del gruppetto di Cossidente, con la partecipazione di tutti i vertici della “famiglia”.
Tra gli elementi che avevano sollevato più di qualche dubbio sull’attribuzione del delitto all’ascesa dei basilischi c’è poi il fatto che non sia mai venuta una reazione dell’altra parte, quella del clan preso di mira. Ma se si allarga lo sguardo verso Melfi nei mesi successivi alla morte dei coniugi Gianfredi sono almeno due i cadaveri lasciati a terra, e uno davanti ai due figli piccoli. Anche su questo D’Alessandro potrebbe fare chiarezza.
Perchè se è stata un’alleanza con i rivali che erano stufi di stare sotto Gianfredi a un certo punto si sarebbe rotta e, secondo quanto dice lo stesso D’Alessandro, nel mirino sarebbero finite altre due persone.
Era arrivato il turno di Renato Martorano e Dorino Stefanutti, ma per qualche motivo il piano è andato a monte.
Leo Amato

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