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POTENZA – Quando il medico “emette la sentenza” c’è poca speranza. Quando ti dicono “mi dispiace, è Alzheimer”, sai bene solo una cosa: nulla sarà mai più come prima.
Sono centinaia le famiglie, qui in Basilicata, che hanno vissuto quel primo tragico momento. Un primo passo verso il baratro, accanto a persone con le quali hai vissuto per una vita e che, improvvisamente, diventano sconosciute. Un padre, una madre che, con occhi spaventati, ti chiedono come ti chiami. E che scappano dalla loro casa, quella magari che hanno comprato con mille sacrifici.
Non è facile convivere con questa malattia. Non è facile raccogliere le forze e andare avanti, magari facendosi una risata quando l’adulto si trasforma in un bambino dispettoso. Non è facile neppure orientarsi, capire cosa fare, a quali strutture rivolgersi. E non è facile reggere le spese che questa malattia comporta. Perchè, più che per altre patologie, i familiari dei malati di Alzheimer sono soli. Almeno qui in Basilicata, dove dal punto di vista dell’assistenza «la situazione è davvero catastrofica».
Lo spiega senza mezzi termini Cristiana Coviello, presidente dell’Associazione Alzheimer Basilicata. E ti racconta di come alle già notevoli difficoltà emotive, si va a sommare l’assenza di posti letto per i malati terminali, quella di centri diurni, i costi anche solo per i pannoloni, «dal momento che la Regione ha dimezzato la fornitura gratuita e si è passati dai 90 ai 40 attuali».
Un problema concreto, imbarazzante per chi deve averci a che fare, ma che le istituzioni faticano a riconoscere, a comprendere e affrontare adeguatamente. Anche perché l’Alzheimer è una malattia dal lungo corso, possono passare anni prima di arrivare all’ultimo stadio. Anni nei quali le famiglie vedono cambiare i loro cari completamente: «Scappano, fanno i pazzi, sono violenti, si bagnano come i bambini. E poi ti guardano con gli occhi stralunati. Inizi a odiarli e a chiederti perché gli stai accanto nonostante tra voi non ci sia più nessuno scambio di amore».
Degli estranei che non puoi abbandonare. Ma che non sai come curare. «Anche perché – spiega Cristiana Coviello, che per sei anni ha accompagnato la nonna in questo percorso – una cura non esiste, si può solo intervenire ritardando la degenerazione. E inizialmente è difficile anche riconoscere la malattia. Inizia e non te ne accorgi. C’è qualche dimenticanza e la famiglia così sottovaluta i primi sintomi. Soprattutto se parliamo di persone anziane. Certo ora la soglia si sta abbassando, conosco casi di persone cinquantenni. E lì è più facile riconoscere i sintomi, perché non puoi attribuirli all’età».
La prima cosa che una famiglia istintivamente fa è quella di rivolgersi al medico di base, che può però non dare le giuste indicazioni, non essendo preparato rispetto al problema.
Se si è fortunati e il medico è pronto a interpretare i sintomi, inizia un lungo e tortuoso cammino: le procedure, infatti, passano alle Unità valutative Alzheimer (tre per il momento in regione), che dovranno decidere del destino di paziente e famiglia. E anche qui i problemi non mancano.
«Quando ci siamo resi conto che qualcosa non andava – racconta Donato Coviello, che ha assistito il padre (morto lo scorso anno) per tre anni – eravamo a Roma. Non solo aveva delle dimenticanze, ma c’erano problemi in bagno. Si sporcava, si faceva la pipì addosso. Lo abbiamo portato allora da un primario che, dopo averlo visitato, ha stabilito che quello era il problema. Lo ha, infatti, inserito nel progetto Cronos (strumento attraverso il quale il ministero della Sanità integra il processo di distribuzione e di rimborso dei farmaci, utilizzando la rete dei propri centri specialistici, in collaborazione con i medici di medicina generale e i farmacisti, garantendo una continuità assistenziale tra strutture ospedaliere e assistenza territoriale). Quando però siamo tornati a Potenza, l’apposita commissione non ha classificato la malattia di mio padre come Alzheimer. Dicevano che non era violento, quindi abbiamo faticato per tutto, anche per ottenere il parcheggio invalidi». E poi entri in contatto con le strutture. O meglio con l’assenza di strutture.
«Le cose ora sono cambiate, io mi sono allontanato dopo la morte di mio padre. Allora, però, per sei mesi il paziente poteva restare al Don Uva a spese della Regione, poi altri tre mesi erano garantiti ma si doveva pagare metà retta. Poi più nulla. L’assenza di un centro diurno ha rappresentato il più grande degli ostacoli. Ci sono delle strutture private, ma ci sono stati chiesti 1.500 euro al mese. E come si fa? La maggior parte delle persone si appoggiano alle badanti, noi siamo riusciti a trovare una casa di riposo ad Avigliano che, fortunatamente, ha accolto mio padre». Costo: 800 euro al mese, «che abbiamo potuto sostenere con la sua pensione e l’accompagnamento».
Ma questa strada non è possibile per tutti: «le case di riposo, infatti, quasi mai accettano questo tipo di malati, perché più difficili, più violenti», conferma Cristiana Coviello.
E, da un anno a questa parte, la situazione è peggiorata. «Il Don Uva ha inaugurato da poco il Nucleo Alzheimer – spiega la presidente dell’associazione – e loro fanno moltissimo, ma il problema sono i fondi: la Regione ti paga 4 mesi l’anno di riabilitazione neuro cognitiva. Per i pazienti più gravi c’è la Rsa geriatrica, ma il costo è di 45 euro al giorno. Sono 1.500 euro al mese, per capirci. Come fa una famiglia media ad affrontare questo costo? L’accompagnamento equivale a 470 euro, non risolve il problema». Per questo Cristiana Coviello ha chiesto un incontro con l’assessore alla Sanità. «Ci sono persone che mi hanno già detto che si andranno a incatenare davanti alla Regione e io spero che l’assessore capisca le difficoltà».
In un momento in cui anche chi gode piena salute vive gravi disagi economici, immaginiamo cosa accade in una famiglia su cui si abbatte questo problema. «Farmaci, pannoloni, letti e poi una carrozzella – racconta Donato Coviello – perché a un certo punto iniziano a cadere continuamente e la prima cosa che accade, di solito, è che si rompano il femore. Per questo spesso si trovano i malati di Alzheimer nel reparto di Ortopedia del San Carlo. E lì altri problemi. Personalmente ho litigato spesso con gli infermieri che non vogliono che i parenti restino vicini al malato. Ma quello non è un paziente come un altro, va cambiato, lavato, imboccato. Io ricordo che noi facevamo le corse nelle ore dei pasti: mio padre non masticava più, bisognava star vicino con pazienza, fare piano piano. Gli infermieri, che tempo non ne avevano, lo imboccavano senza aspettare, una volta l’ho trovato con gli occhi di fuori. Io capisco che hanno tante cose da fare, ma quello dell’infermiere non è un mestiere come un altro, bisogna avere passione e amore. E la mia esperienza non è stata positiva in questo senso. Più in generale, comunque, posso affermare che l’Asl non ci ha aiutato affatto. Noi eravamo impreparati, non sapevamo neppure cosa quella malattia comportasse. Quello che ricordo è la rabbia di un figlio che vedeva il padre che si sporcava e se la prendeva con lui. Ma non era lui, era la malattia a portare questi problemi. E il passaggio da fare è superare la mancanza di informazione sulla malattia. Noi non abbiamo mai capito se di alcune cose si accorgeva o no, perché aveva qualche minuto di lucidità nell’arco delle 24 ore».
Pochi minuti in cui tuo padre ritorna. Per poi ripartire e lasciarti con un ospite di nome Alzheimer.
Antonella Giacummo
a.giacummo@luedi.it

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