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di ORLANDINO GRECO*
Sarò presente a Reggio insieme al presidente del Consiglio Luca Gigliotti, in rappresentanza del consiglio comunale di Castrolibero, a sfilare a Reggio nella manifestazione di solidarietà nei confronti della magistratura impegnata nella lotta contro la mafia e fatta oggetto di intimidazioni e veri atti di guerra. È una manifestazione importante, diversa dalle altre, perché promossa e veicolata da un giornale, Il Quotidiano della Calabria, ma che è cresciuta muovendo dal basso, direttamente dal corpo sociale, a prescindere dalla mediazione politica, che non è stata richiesta e, se c’è stata, va considerata aggiuntiva e comunque positiva. La specificità, dunque, sta in questa mobilitazione delle coscienze e delle responsabilità, individuali e collettive, che Matteo Cosenza dalle colonne del giornale da lui diretto è riuscito a mettere in campo. Vanno conservati gli interventi pubblicati a commento della manifestazione perché sono trasversali alle appartenenze politiche ed, anzi, in molti casi ne prendono le distanze. C’è stato l’allarme, molto opportuno, di Vito Teti, antropologo docente dell’Unical, il quale ha visto nella folla di adesioni all’iniziativa il rischio di uno snaturamento, rispetto alle intenzioni, ad opera di quella zona grigia contigua e collusa con la criminalità, mimetizzata nelle istituzioni e nei gangli della pubblica amministrazione che costituisce il cuore del problema. Ammoniva il superprefetto De Sena, oggi senatore del Pd, quando era prefetto a Reggio, che prima della mafia, nell’azione di contrasto, veniva il ventre molle della pubblica amministrazione dove la mafia instaura le sue postazioni, con la corruzione e le minacce, per controllare appalti, risorse, aiuti nazionali ed europei, lavori pubblici, spesa sanitaria, gestione dei rifiuti, energie alternative, turismo e quanto transita nel circuito economico-produttivo della Regione. A spiegare questo intreccio fra mafia, pubblica amministrazione, imprenditoria amorale, faccendieri di professione e politici collusi, è nato un nuovo termine che lessicalmente esprime un concetto più complesso e meno estensivo di quello dei “colletti bianchi”, troppo generico. Il termine di recente adozione, “borghesia mafiosa”, con il quale sociologicamente s’intende l’intreccio del mondo della politica, delle professioni, delle imprese, della burocrazia e di delicati apparati dello Stato deviati con l’attività mafiosa, indica e richiede punti di osservazione diversi da quelli tradizionali. Questure, stazioni dei carabinieri, tribunali e paginate di giornali sono il punto di arrivo del problema, quando l’attività di intelligence porta alla luce misfatti e collusioni. Bisogna concentrarsi sul punto di partenza. La vigilanza e, quindi, l’azione di contrasto si deve spostare dove la collusione nasce e si consuma, dove la mafia imprenditrice organizza i suoi business con la complicità, appunto, della borghesia mafiosa. Può sembrare un paradosso ma non è al santuario di Polsi o nelle caverne dell’Aspromonte che si combatte la mafia. È vecchia letteratura che ignora la modernità della mafia odierna che, ormai, elegge direttamente propri rappresentanti nelle assemblee elettive e, quando non ci riesce, se li compra mettendosi al loro servizio. Consapevoli, dunque, della complessità del problema e delle connivenze che vi ruotano intorno andiamo a Reggio a manifestare solidarietà al procuratore Di Landro e a tutti i magistrati che vivono in trincea la loro missione di uomini di legge e difensori dello Stato. Matteo Cosenza, nel definire gli aspetti organizzativi della manifestazione, garantisce che non ci saranno passerelle di politici ma soltanto testimonianze di chi la mafia l’ha subita e combattuta. È importante il segnale che da Reggio deve arrivare a Roma ed ai palazzi dove si prendono le decisioni per affrontare il problema, muovendo dalla preliminare constatazione che non c’era nessuno a vigilare davanti al portone dell’abitazione del procuratore Di Landro la notte che, indisturbati, criminali al tritolo piazzavano la bomba. Ma non è solo questo. Gli organici delle procure impegnate in prima linea sono insufficienti, mancano magistrati e pubblici ministeri, non bastano i cancellieri, si lavora in condizioni di emergenza permanente, le auto di servizio sono obsolete, la sicurezza è garantita ai livelli minimi. Nelle questure manca il carburante per le auto e sovente gli agenti provvedono di tasca propria. Per ovviare a tutto questo non serve la presenza dell’esercito che sarebbe costosa e inutile. Servono mezzi, risorse e professionalità d’intelligence, gente che sa leggere nei flussi di denaro e nella composizione di certe società, nei collegamenti fra la Calabria che fornisce manovalanza e la cupola manageriale insediatasi nei quartieri alti delle capitali del nord. Serve una banca dati, serve una rivoluzione nei ruoli e nella dirigenza della pubblica amministrazione, serve la certezza che la legge, lo Stato è più forte della mafia. Già, lo Stato. Il ministro Brunetta ha affermato che in Calabria lo Stato non c’è, come non c’è la politica ed una classe dirigente credibile e affidabile in una regione dove, fino a oggi, si è governato senza contabilità. E mentre tutto questo accadeva nell’impunità generale, lo Stato di cui Brunetta lamenta l’assenza, non c’era. I calabresi, soggiogati da poteri criminali e da oligarchie di notabili che da sempre portano voti a Roma, non hanno responsabilità se lo Stato non c’è o, se c’era, non si è fatto sentire. Se fino ad oggi non c’è stato, si aspetta che arrivi con gli strumenti necessari. È questo il messaggio che da Reggio deve giungere a Roma firmato dalla Calabria degli onesti che non si rassegna alla sconfitta nella lotta contro la mafia.

*sindaco di Castrolibero (Cs)

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