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di FRANCO CRISPINI
Un premier in forte eccitazione non ha saputo sottrarsi, in un suo comizio da Milano, ad una delle sue solite battute di spirito, ed ha dichiarato: «Di Pietro ha una vera laurea : riformerò subito l’Università». Solo da qui, dall’incredibilità che possa esser “vera”, quella laurea il cui conferimento dimostrerebbe una insufficienza dei meccanismi universitari, al Cavaliere piace far discendere la necessità di metter mano ad una riforma dell’istituzione. E ciò, mentre Berlusconi elencava tutte le riforme varate dal suo governo: se anche le altre sono nate dalle medesime urgenze, rispondendo a drammatizzazioni dei propri personali risentimenti (da questa stessa fonte di disegno punitivo si vorrebbe metter mano alla riforma della Giustizia!) diventa più chiara l’idea di come si sta governando il nostro Paese. Ma al di là dello scopo dettato da quella alterazione abituale nel Cavaliere ossessionato dai battaglioni di nemici che vogliono travolgerlo, forse il “subito” che chiede per la riforma universitaria è per la stessa un lascia passare in tempi ravvicinati. Se così fosse, in questo mese di ottobre, la Camera, dopo una prima approvazione del Senato, potrebbe approvare e rimandare allo stesso, il testo di riforma della Gelmini: anche Fini si dichiara disposto a farlo uscire in tempo dalla Commissione e dalla pressione degli emendamenti (tra i quali sembrerebbe ve ne siano alcuni provenienti dalle corporazioni interne che premono sui deputati per tutelare questo o quel piccolo interesse individuale), e farlo pervenire nell’aula di Montecitorio. A giorni si capirà meglio cosa sta avvenendo, e si capirà anche se i rettori. cui si è fatto intravedere una erogazione finanziaria in cambio di un sostegno alla legge di riforma (il presidente della conferenza dei rettori, Enrico Decleva ha dichiarato: «Bisogna fare in fretta. Questa riforma deve essere approvata. Siamo all’ultima spiaggia». Tra l’altro, dice sempre Decleva, molte Atenei hanno già approvato in nuovi statuti previsti dal disegno di legge, e si troverebbero, nel caso della non approvazione, “ senza la copertura di legge su cui contavano”. Ma davvero vi “contavano”? ) continueranno a mantenere una posizione di divergenza dai propri Atenei e riusciranno a convincere i rispettivi corpi docenti, compresa la gran massa dei ricercatori precari, che la riforma che verrà approvata è il meglio che poteva venire da questo “governo del fare”. Tutti convengono che un intervento legislativo per l’Università lasciata da anni a se stessa, era necessario ed urgente, ma non tutti fuori e dentro il mondo accademico ritengono che la riforma Gelmini era proprio quello che ci si aspettava, che soprattutto si richiedeva. I pareri sono fortemente contrastanti e divisi: vi è chi ritiene che questa riforma, benché avviata ad un “probabile affossamento” (vincoli dei calendari parlamentari, risse nella maggioranza, anticipo delle elezioni), sia un “ambizioso tentativo di ridare slancio all’istruzione superiore” (Angelo Panebianco) , per quanto “non perfetta”, da non rifiutare in blocco, vi è invece chi pensa che essa è piuttosto lo sforzo di “conservare” meglio l’ università nello stato in cui è (rovinoso), altri infine la ritiene “innoqua” cioè non in grado né di migliorare né di peggiorare le cose. Come si dice e si va ripetendo, i punti qualificanti della riforma sono pochissimi, per lo più si tratta di aggiustamenti organizzativi: la Facoltà non è più tra gli organi dell’Università ( art. 2) come rettore, Senato, consiglio di amministrazione, collegio dei revisori dei conti, nucleo di valutazione, istituzione di aree di coordinamento (scuole) di dipartimenti cui è demandato il compito dell’organizzazione della ricerca e della didattica, diversa formazione e composizione di Senato accademico e consiglio di amministrazione, riduzione (otto anni) del mandato di rettore, e poco altro che viene a riguardare la “correttezza” della governance degli atenei. Si vede chiaramente che di veramente significativo quanto a spinte innovative non vi è molto. Su alcuni problemi cruciali quali il reclutamento dei docenti e la promozione delle giovani forze dei ricercatori si vede subito che la istituzione di una abilitazione nazionale per conseguire la idoneità è una soluzione inferiore alle attese: rischi di allungamento dei tempi e di lunghe fasi di precarizzazione. Non sappiamo se passerà la proposta di una “indennità didattica” per ottenere una marcia indietro della maggioranza dei ricercatori impegnati nella didattica, assieme all’altra previsione della messa a concorso, in sei anni di circa milleciquecento posti di associato all’anno: sono correttivi dell’ultimo momento suggeriti dalle grandiose agitazioni in corso, i quali non fanno essere la riforma un intervento di grandi proporzioni per dare slancio e qualità ad una istituzione pubblica che sta vivendo un momento difficile. E’ opportuna una rapida approvazione del disegno di legge Gelmini sulla base del fatto che non era possibile avere altro di meglio dopo che per anni si erano lasciati ispessire, ingigantire e complicare i tanti problemi, di diversa natura, che sono una menomazione per l’Università italiana? Davvero, come pensa Angelo Panebianco (“L’Università dimenticata”, “Corriere della Sera”) questa riforma può costituire un vanto per il governo in carica che ha poco da rivendicare al suo attivo? E’ anche possibile che si stia pensando, in mancanza di tanto altro, a sbandierare la riforma, per una opinione pubblica non molto interessata alla sorte di tante istituzione, come il massimo impegno del governo berlusconiano pensoso della più alta qualificazione dell’istruzione superiore nell’interesse del popolo sovrano. Può darsi, qualcosa in più (ma forse anche in meno) per rendersi presentabili in un possibile imminente confronto elettorale. Oltre tutto, come si è augurato il premier, non si rilasceranno più nel nostro Paese lauree “non vere” ai propri scalmanati avversari.

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