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di PIETRO MANCINI
La storia e la politica ci hanno insegnato che, spesso, chi detiene il potere viene tradito e abbandonato proprio dalle persone della sua cerchia. Chi non ricorda le pugnalate, inferte da Bruto a Giulio Cesare, che aveva imposto nella Antica Roma la sua dittatura? E non furono proprio due gerarchi del fascismo, fedelissimi del Duce, Dino Grandi e Bruno Bottai, a far approvare, il 25 luglio del 1943, dal Gran Consiglio del Partito nazionale fascista il documento, che fu determinante per l’addio del cav. Benito a Palazzo Venezia? Nella Prima Repubblica, prima di prendere l’aereo per il triste esilio ad Hammamet, Craxi dovette subire il “codardo oltraggio” di tanti esponenti del Psi che, quando la stella di Bettino risplendeva nel firmamento politico italiano, forse, avevano ecceduto nel “servo encomio”. Il più lesto a scaricare il numero uno socialista fu Carlo Ripa di Meana – che era soprannominato “Orgasmo da Rotterdam” – inviando proprio al grande nemico di Bettino (come lo è oggi di Berlusconi), Eugenio Scalfari, una lettera di fuoco contro Craxi, che lo aveva designato a incarichi prestigiosi, nel Belpaese e all’estero. E non brillarono per fedeltà allo statista milanese, travolto dalla slavina di Tangentopoli, neppure gli ultras craxiani, Giuliano Amato e Claudio Martelli, imposti da Bettino prima come suoi vice alla segreteria del Psi e poi alla Presidenza del Consiglio e sulla poltrona di Guardasigilli. E oggi il presidente della Camera e altri tipini “Fini”, come li ha definiti il sito “Dagospia”, vanno considerati, oppure no, irriconoscenti e traditori di Silvio, che nel 1993 li sdoganò, quando militavano, semisconosciuti “peones”, nel vetusto e fascistissimo Msi di Almirante e Romualdi? E colpiscono, non positivamente, i veri e propri salti della quaglia di alcuni “peones” di Montecitorio e di Palazzo Madama. Ad esempio, Chiara Moroni, figlia del deputato del Psi, Sergio, che si suicidò, nel ’92, quando era finito sotto inchiesta per aver incassato alcune mazzette per finanziare il partito. Dopo aver fatto la parlamentare per 3 legislature grazie a Berlusconi, la Moroni, qualche mese fa, ha salutato, senza un pizzico di imbarazzo, il suo benefattore e si è imbarcata con Fli. Nel suo editoriale di domenica, sul “Corriere della sera”, intitolato “La solitudine di un leader”, Galli della Loggia è stato molto duro con Berlusconi e con molti suoi collaboratori, che ha definito «una turba di mezze calzette, di villan rifatti, di incompetenti, di procacciatori, di camerieri e di puri e semplici profittatori». Lo scrivente – che, tra i primi, su queste colonne, ha accostato il declino del Cavaliere agli ultimi giorni di Pompei – vorrebbe rivolgere a Galli della Loggia una domanda. Egregio professore, se in Forza Italia, prima, e nel Pdl, poi, hanno dettato legge quegli esponenti, da lei bocciati severamente, potrebbe spiegarci le ragioni per cui, dal 1994 fino alle regionali del 2010, la formazione politica, fondata e guidata dall’attuale presidente del Consiglio, che lei ha definito un «leader tristemente solo», è il primo partito del Paese e ha portato il Cavaliere a Palazzo Chigi 3 volte, dopo aver sconfitto tutti i candidati del centrosinistra, a eccezione di Romano Prodi? Colpa del destino cinico e baro, di saragattiana memoria, o dell’imbecillità della maggioranza degli italiani? Purtroppo, quando si avverte, o si ipotizza che incombe la fine di una leadership, nel teatrino politico, non sono molti quelli che preferiscono, con stile e dignità, sottrarsi alla tentazione di dare il “calcione dell’asino” al capo declinante. Lo dico, con simpatia, anche al mio amico Giulianone Ferrara che, dopo aver militato nel Pci di Togliatti e Berlinguer e poi nel Psi craxiano, fu apprezzato ministro del primo governo del Cavaliere. Venerdì scorso, sul “Foglio”, l’“elefantone” ha intonato un “de profundis”, forse troppo frettoloso e un pizzico ingeneroso, sul berlusconismo. Un altro grande giornalista, che ha già prenotato una poltronissima di prima fila per il giorno dell’auspicato addio dell’odiato “Caimano”, è Eugenio Scalfari. Il fondatore di “Repubblica” riversa sul premier lo stesso odio, che dimostrò nei confronti di Craxi, ma solo negli ultimi anni della lunga egemonia di Bettino. Ovviamente, Scalfari auspica la fine, politica e giornalistica, non solo del Cavaliere, ma anche di coloro, che ritiene i suoi “servi prezzolati”. Di recente, don Eugenio ha sostenuto che il direttore editoriale del “Giornale”, Vittorio Feltri, avrebbe meritato non i 3 mesi di sospensione – comminati dall’Ordine dei giornalisti per la vicenda delle accuse, in parte non vere e ritirate, all’ex direttore di “Avvenire”, Boffo – ma la radiazione a vita. Ma, nella foga dell’invettiva contro il “Caimano” e i suoi “infami manutengoli”, l’attempato editorialista di “Repubblica” ha dimenticato che, negli anni ’70, “L’Espresso”, da lui diretto, costrinse alle dimissioni l’allora presidente della Repubblica, Giovanni Leone, dopo una violenta campagna, sulla base di elementi accusatori che si rivelarono delle patacche. Purtroppo, nella politica come nel giornalismo, abbondano i censori delle colpe altrui, ma indulgenti con le proprie, i profeti del giorno dopo e i “tornacontisti”, disposti a cambiar casacca, in quanto, oltre alla famiglia, tengono il seggio, l’incarico e i relativi stipendioni, a cui non intendono affatto rinunciare. La decisione, delicata e attesa, sulla prosecuzione, o meno, della legislatura, nelle prossime cruciali settimane, spetterà al presidente della Repubblica. Ovviamente, con equilibrio e saggezza, l’esperto Giorgio Napolitano terrà conto di quanto gli diranno i leader dei partiti e i presidenti dei gruppi parlamentari. Ma, al Quirinale, non potranno non considerare che la formazione di un governicchio tecnico, ancorchè costituzionalmente legale, non verrebbe salutata, con entusiasmo, dai milioni di elettori, che 2 anni fa si erano, con chiarezza, espressi. Per rispetto della maggioranza degli elettori, seguendo la strada maestra del bipolarismo – e scartando la scorciatoia dei logori riti della vecchia politica e dei ribaltoni – sarebbe più trasparente e più lineare ridare la parola, e le schede, ai cittadini.

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