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di ROMANO PITARO
Nella Padania, gigante economico di un’Italia in declino, vince la ‘ndrangheta? Sembra uno scherzo. L’informazione di mamma Rai e il grosso dei media che bombardano gli italiani non trasmettono messaggi così urtanti. A Milano e dintorni comandano le ‘ndrine calabresi? Se aveva visto giusto Gaetano Salvemini nell’asserire che «da Milano si vede l’Italia», c’è da star freschi. Ma forse è colpa di titolazioni ardite, ancorché ossessionate dai fatti e dalla realtà. Iperboli di giornali ed opinionisti, che, dopo aver minimizzato per anni notizie, fatti e delitti siglati dalla criminalità organizzata, benché le inchieste sulla mafia a partire dagli Anni ’90 non siano mancate (“La mafia all’ombra del Duomo”, “Duomo Connection”), ad intervalli regolari, come ha notato Francesco La Licata sulla “Stampa” del 1° ottobre 2009 a commento del “Rapporto Censis” sulla penetrazione della mafia nel Mezzogiorno, vanno in solluchero per “l’eterna riscoperta del male”. Cedendo così ad una sorta di conformismo che alla lunga produce incredulità piuttosto che maggior senso civico. Piano con le generalizzazioni, verrebbe da dire. Almeno a primo acchito. Altrimenti, a furia di messaggi generalisti, polarizzati tra l’assoluto o il nulla (nella fattispecie tutto è mafia o la mafia non c’è), finiremo col non distinguere il giorno dalla notte. Se la Padania fosse ‘ndrangheta e mafie, inverando una di tardiva vendetta del Mezzogiorno considerato “buco nero di criminali e omertosi”. Se così fosse per davvero, a un passo dallo scompiglio politico nazionale e di ciò che Angelo Panebianco sul “Corriere della Sera” definisce “una crisi sistemica lunga, complessa ed imprevedibile”, altro che Milano “argine al degrado ch avanza”. Altro che Milano speranza degli italiani onesti, come chiosa in una bella conversazione con Giangiacomo Schiavi (Corriere dalla Sera del 31 ottobre) il giurista ed ex presidente della Consob Guido Rossi. Non Milano «laboratorio per chiedere alla politica un salto di qualità in direzione dell’impegno e della responsabilità contro le cricche e la piaga». Viceversa, Milano e hinterland fabbriche di segni che rivelano «un’osmosi tra attività istituzionali e interessi particolari che rappresentano – secondo Giuseppe Gennari, giudice per le indagini preliminari del tribunale di Milano – la via d’ingresso della criminalità organizzata (leggi ‘ndrangheta) nel mondo economico e politico». Ed è su sentieri di ragnatele infide, impastate di business e sangue, condizionamenti e infiltrazioni nella pubblica amministrazione, che avviluppano politica (eloquenti i capitoli dedicati alle responsabilità degli imprenditori del Nord che hanno aiutato i mafiosi), criminalità organizzata, economia e società che getta lo scandaglio, il nuovo e denso lavoro di Enzo Ciconte (‘Ndrangheta Padana”, edito da Rubbettino). L’intento è dimostrare, carte giudiziarie alla mano (anzitutto la maxi-inchiesta delle Dda di Reggio e Milano di luglio con centinaia di arresti, operazione “Crimine”) che la Lombardia è infestata dalla mafia, dai suoi traffici e dai suoi soldi. Ma si fanno spazio deduzioni sconfortanti per il futuro del Nord, del Sud e del Paese. Su cui le classi dirigenti nazionali, o quel che ne residua in termini di lungimiranza e senso delle istituzioni, farebbero bene ad aprire gli occhi. Perché lo scenario che delinea Ciconte, frutto della felice commistione di più elementi d’analisi, giudiziari, politici e sociologici, ha il colore di un cielo cupo. Un Paese senza futuro in mano a mafie, e politici senza alcuna missione che non sia quella di tenere il sacco a cricche e potentati occulti. Se ad incominciare dagli anni ’80 si è proceduto mirando ad accumulare ricchezza infischiandosene di regole e controlli e con un’incredibile «indifferenza per le sorti dello Stato», perseverare vorrebbe dire consegnare il Paese alle mafie. Oggi Nord e Sud sono uniti da fenomeni predatori e dall’evanescenza di ogni etica pubblica. Scendere a patti con la ‘ndrangheta e farla sedere al suo stesso tavolo come ha fatto il Nord, non è meno immorale delle coperture che essa ha avuto al Sud. Discutere di questione settentrionale o meridionale appare, in queste condizioni, un diversivo per non affrontare il cancro che uccide la democrazia italiana. In duecento pagine, Ciconte documenta attraverso quali canali gli ‘ndranghetisti si sono infiltrati al Nord, «diventando interlocutori di primo piano di imprenditori e uomini politici». Sulla scorta di quanto – specie negli ultimi tre anni – asseriscono diversi magistrati calabresi e lombardi, e utilizzando i dati della più vasta operazione (luglio 2010) mai condotta nei confronti delle mafie, e della ‘ndrangheta in particolare, nella storia del Paese (ivi incluso un filmato, cliccatissimo su Youtube, che viola i segreti e le ritualità delle riunioni di ‘ndrangheta nella terra di Alberto da Giussano), il docente di Storia della criminalità organizzata all’Università di Roma Tre, ribadisce l’idea che la ‘ndrangheta ha due capitali: Milano e Reggio Calabria. Una verità su cui la politica ha preferito, salvo lodevoli eccezioni, chiudere gli occhi. Al punto che, nonostante Bossi e l’ orgoglio celtico, che a parole sembrano quanto di più distante dai riti criminali, la stessa Lega con il predominio mafioso ha convissuto. E non tanto perché ha accolto il consiglio dato a Palermo nel 2001 dal ministro Pietro Lunardi che auspicava una convivenza con la mafia, ma perché l’ideologo della Lega, Gianfranco Miglio, teorizzava, undici anni fa, “la costituzionalizzazione” della mafia. Fanno riflettere alcune affermazioni di Ciconte: «Negli ultimi quindici anni la ‘ndrangheta ha conteso alla Lega il controllo del territorio padano. Non è vero che al Nord c’è solo la Lega che controlla il territorio, c’è anche la ‘ndrangheta che, esattamente nelle stesse località dove c’è un forte insediamento della Lega, gestisce potere, agisce economicamente, fa investimenti, interviene in vari campi anche sociali, ha una presenza in politica». In sostanza, spiega lo storico delle mafie «l’egemonia politico e territoriale della Lega non ha comportato la scomparsa della ‘ndrangheta». E c’è di peggio: «A voler essere precisi, s’è realizzata una coabitazione tra Lega e ‘ndrangheta esattamente negli stessi territori. L’equazione controllo del territorio da parte della Lega= scomparsa della ‘ndrangheta non è affatto vera, anzi è falsa. La preponderanza politica della Lega non ha assicurato una minore incidenza mafiosa su quei territori, al contrario tale incidenza è aumentata». Essendosi allocata (inizio anni ’50) nella Padania ed avendo costruito un sistema di potere capillare ed efficiente, la ‘ndrangheta (che agisce ossessionata dall’idea di clonare pezzi di territorio calabresi per riprodurli del tutto uguali in altre realtà), ha contagiato il panorama in ogni sua piega. Ha agito in combutta col peggio del Nord, sostenuta da importanti blocchi di interessi economici e finanziari, schiacciando la libera impresa e condizionando il mercato. Mette i brividi la domanda che Ciconte, a un certo punto, pone: nel caso la Lega realizzasse il suo obiettivo (la Padania indipendente), ci si rende conto che le istituzioni e la società del Sole delle Alpi sarebbero una preda nelle grinfie della più potente delle mafie? E’ tutto buio. Forse no. A parte l’incessante lavoro di giudici e forze dell’ordine. Una presa di coscienza si avverte. La mafia nel Nord c’è. Ci si guarda bene, come s’è fatto per decenni, di dire che è un corpo estraneo, un’abitudine dei terroni. Il consiglio regionale della Lombardia ha tenuto di recente una seduta straordinaria sull’inquinamento mafioso e due commissioni, quella lombarda che sta redigendo un unico testo di legge per garantire la trasparenza negli appalti e quella antimafia della Calabria, iniziano a dialogare. Ma serve molto di più. La politica italiana è ben lontana dal trovare un equilibrio istituzionale che consenta alle Istituzioni di agire con fermezza in difesa della legalità. Franco Abruzzo, ex presidente dell’Ordine dei giornalisti lombardo e calabrese critico per come vanno le cose nel Mezzogiorno, asserisce che Milano «ha deciso nel bene e nel male, dal ‘700 ad oggi, tutte le svolte nazionali, dall’Illuminismo al Risorgimento, la grande guerra, il fascismo, la resistenza, il centrosinistra, tangentopoli, la Lega Nord e Forza Italia». In questo senso, ci si attenderebbe che arrivasse proprio dall’ex capitale morale un forte impulso culturale e politico per ridurre agli stremi “la politica barbarica”, le mafie e la corruzione. Ma se oggi, come spiega “’Ndrangheta Padana”, la ‘ndrangheta e le mafie subiscono nel Sud un arretramento mentre gli agglomerati mafiosi diventano floridi e influenti nel Nord, che fare? Insistere sul nuovo modello di “democrazia dal basso”, cui hanno fatto riferimento alcuni autorevoli intellettuali durante le primarie del centrosinistra a Milano, in parte rivelatesi un flop, rischia di apparire alquanto grottesco.

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