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Non ha risposto alle domande del Gip, Domenico «Micu» Oppedisano, in manette per essere considerato il capo della “Provincia”, l’organismo di vertice della ‘ndrangheta calabrese. Comparso ieri davanti al Gip per l’interrogatorio di garanzia propedeutico alla eventuale convalida del fermo disposto dalla Dda di Reggio Calabria nell’ambito dell’operazione coordinata con la Dda di Milano – e che ha portato in carcere oltre 300 persone – Oppedisano, fedele al suo presunto ruolo, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Un atteggiamento tenuto dalla quasi totalità dei 122 fermati nella provincia reggina interrogati, per la maggior parte, nelle carceri di Palmi, Locri e Reggio Calabria. Gli interrogatori si sono svolti anche in varie località, davanti ai Gip dei Tribunali competenti per territorio in base a dove sono stati eseguiti i fermi. La decisione di convalidare i fermi ed emettere i provvedimenti restrittivi chiesti dalla Dda di Reggio Calabria, però, sarà emessa solo nella giornata di oggi.

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I giudici, infatti, dovrebbero fare provvedimenti unici raggruppando le varie posizioni di loro competenza. E mentre la maggior parte degli interrogatori si sta svolgendo a Reggio e provincia, ha finito il proprio lavoro il giudice di Vibo Valentia che ne ha consegnato l’esito. Restano tutti in carcere i sette vibonesi coinvolti nella maxi operazione antimafia “Crimine”. E stata questa la decisione del giudice per le indagini preliminari di Vibo, Gabriella Lupoli, al termine degli interrogatori di garanzia svoltisi, per rogatoria, nell’istituto penitenziario vibonese. Per il gip, che ha convalidato il fermo ed emesso contestualmente sette ordinanze di custodia cautelare in carcere, esistono, pertanto, gravi indizi di colpevolezza a carico di Antonio Cuppari, 71 anni di Spilinga, Michele Fiorillo, 19 anni di Vibo, Salvatore Giuseppe Galati, 46 anni di Vibo, Giuseppe Antonio Primerano, 65 anni, originario di Giffoni (Rc) ma residente a Fabrizia, Damiano Ilario Tassone, 24 anni, di Nardodipace, Rocco Bruno Tassone, 64 anni di Nardodipace, e Antonio Altamura, detto “’Ntoni”, 64 anni, di Gerocarne. A questo punto c’è da attendere solo l’esito dei giudici reggini che, in considerazione del fatto che quesi tutti i fermati si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, si dovranno regolare esclusivamente sulle carte del fermo. Un lavoro comunque abnorme viste le migliaia di pagine di cui è composto. La scelta di molti degli indagati di non rispondere alle domande dei giudici è legata ad una scelta di strategia difensiva. Nel senso che prima di rispondere, e quindi di cadere in eventuali contraddizioni, gli avvocati voglio poter consultare gli atti nella loro totalità. Cosa che potrà avvenire soltanto i fascicoli saranno messi a disposizione degli avvocati per il ricorso al Tribunale della Libertà.

L’OPERAZIONE – La maxi operazione di carabinieri e polizia contro la ‘ndrangheta: oltre 300 persone sono state arrestate in Calabria e in diverse località dell’Italia settentrionale, nella quale sono stati impegnati tremila uomini delle forze dell’ordine, ha portato all’arresto di oltre 300 indagati per associazione di tipo mafioso, traffico di armi e stupefacenti, omicidio, estorsione, usura ed altri gravi reati. L’operazione ha colpito le più importanti e potenti famiglie della ‘ndrangheta delle province di Reggio Calabria, Vibo Valentia e Crotone, oltre alle loro proiezioni extraregionali ed estere. Di fatto sono state «destrutturate», dicono gli inquirenti, le cosche egemoni nel capoluogo reggino, nella fascia ionica ed in quella tirrenica, tra cui i Pelle di San Luca, i Commisso di Siderno, gli Acquino-Coluccio ed i Mazzaferro di Gioiosa Ionica, i Pesce-Bellocco e gli Oppedisano di Rosarno, gli Alvaro di Sinopoli, i Longo di Polistena, gli Iamonte di Melito Porto Salvo. Gli arresti sono il frutto di indagini coordinate dalle Procure Distrettuali Antimafia di Milano e Reggio Calabria. E’ così stato possibile documentare la gestione delle attività illecite in Calabria e le infiltrazioni della ‘ndrangheta nel Nord Italia dove stava estendendo i propri interessi illeciti in diversi settori economici. Sono stati sottoposti a sequestro preventivo beni mobili ed immobili per decine di milioni di euro. Nel mirino degli inquirenti, i clan del reggino e le loro ramificazioni nel settentrione. L’attività degli inquirenti avrebbe individuato la nuova organizzazione delle ‘ndrine che sarebbe oggi basata su un assetto verticistico e non più sulla tradizionale rete di rapporti «orizzontali» tra famiglie. Secondo quanto si apprende, gli investigatori avrebbero eseguito il sequestro di ingenti patrimoni. L’operazione odierna sarebbe il frutto di due distinti filoni investigativi poi confluiti in un’unica inchiesta.

LA NUOVA STRUTTURA GERARCHICA – E’ Domenico Oppedisano, 80 anni, esponente dell’omonima famiglia di Rosarno, l’uomo indicato dagli inquirenti come l’elemento di vertice dei clan della ‘ndrangheta calabrese. Oppedisano sarebbe stato, secondo quanto emerso durante le indagini, al vertice della «Provincia», l’organismo che nella nuova configurazione degli assetti della mafia calabrese sovrintenderebbe all’attività di tre mandamenti in cui la criminalità avrebbe suddiviso le due sfere d’influenza: Ionio reggino, Tirreno e Nord Italia. La designazione di Oppedisano a massima figura carismatica della ‘ndrangheta sarebbe stata decisa dai capi mandamento durante il matrimonio, avvenuto il 19 agosto 2009, tra i figli di due boss. Il ruolo indiscusso di Oppedisano emerge da una serie di intercettazioni telefoniche ed ambientali compiute nel corso delle indagini. Oppedisano, secondo quanto emerge dalle indagini, aveva il controllo assoluto di qualsiasi attività dell’organizzazione, dai rituali di affiliazione alle singole attività illecite delle cosche sia italiane che all’estero. Sull’attribuzione dei ruoli all’interno delle cosche i magistrati affermano che «emerge, a conferma dell’unitariet… dell’universo ndrangheta che il ‘capocriminè Domenico Oppedisano ha stabilito tale regola per tutta la ndrangheta sia in Calabria che in Italia che all’estero; tutta la ‘ndrangheta deve osservare la prescrizione imposta da Oppedisano». In una intercettazione ambientale Oppedisano afferma che “anche per quelli fuori territorio bisogna parlare con i responsabili e che sono i responsabili a doverli portare avanti e non che uno viene da un altro mondo…». Il ruolo di vertice rivestito da Oppedisano emerge anche dalle ripetute visite di persone riconducibili al contesto della ‘ndrangheta. Nel luglio del 2009 in una conversazione tra Domenico Oppedisano ed il nipote Pietro, il ‘capocriminè afferma che «se non abbassavo la testa io. (inc) niente». A quel punto Pietro Oppedisano sgrana gli occhi per l’irritazione dello zio e quest’ultimo gli ribadisce «se non abbasso la testa io…su una cosa…non c’Š niente per nessuno!…Hai capito!». LA PROCURA – «La ‘ndrangheta sarà sconfitta definitivamente solo se ci sarà anche “una rivolta della società civile” ma in realtà “pochi hanno aiutato” la procura di Reggio Calabria» ha affermato il procuratore del capoluogo calabrese, Giuseppe Pignatone che invita anche la Lombardia a «creare i suoi anticorpi». «E’ un eufemismo definire non collaborativo l’atteggiamento degli operatori economici della Lombardia – afferma Pignatone -. C’è stata l’assenza pressoché totale di denunce anche nei casi in cui sono stati accertati reati specifici. Sono state pochissime le volte in cui le vittime hanno fatto dichiarazioni utili alle indagini». «Su questo punto – esorta quindi il procuratore – serve che le varie componenti della società trovino gli anticorpi per reagire e in fretta. In Lombardia, ma al Nord in generale, le cosche possono esser sconfitte in tempi più rapidi che in Calabria perchè il tessuto sociale è diverso».

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