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MATERA – «Ho perduto il mio tesoro, il mio bastone, la mia speranza, la mia grandezza. Dove sono andate tante sue fatiche? Ecco dove sono andati a finire i miei sacrifizi, quelli del padre e tanto suo lavoro: sono tutti sotterrati in un fosso, e non lo vedrò mai più». Scriveva queste parole Francesca Armento, madre di Rocco Scotellaro in una lettera pubblicata su “L’Avanti” del 29 agosto 1954 per ricordare l’ex sindaco di Tricarico scomparso. Copia di quella pagina è nel libro “Il prezzo della Libertà – lettere da Portici” (edizioni Giannatelli) scritto da Pasquale Doria con contributi di Emanuele Festa, Nicola Filazzola, Biagio Lafratta e Gilberto Marselli.
Il lavoro di ricostruzione storica diventerà realtà domani a partire dalle 17,30 proprio nell’ex carcere di S. Rocco, in piazza S. Giovanni Battista dove Scotellaro rimase imprigionato per 40 giorni, dall’8 febbraio 1950, nella cella numero 7.
Ulderico Pesce darà voce al dolore della madre dello scrittore nella stessa stanza in cui fu recluso e che verrà intitolata a suo nome, recuperando una “dimenticanza” che dura da troppo tempo.
Pesce, dunque, animerà quei locali (oggi ristrutturati e trasformati in area polifunzionale in cui vengono ospitate mostre e iniziative culturali), facendo sentire il rumore del dolore ma anche quello dell’impegno politico, del valore di una ricostruzione collettiva che la Basilicata dei contadini e di Scotellaro tentò di costruire.
Il volume di Doria contiene documenti inediti, immagini e storie di straordinario valore come quella di “Mingo” Domenico Giannace, unico superstite di quella cella che in un bellissimo passaggio riportato nel testo, racconta il “suo” Rocco Scotellaro: «Sono stato denunciato e poi gettato in carcere più volte..- ricorda oggi a 91 anni – La prigione l’ho conosciuta a 16 anni. Parliamo dell’inizio di marzo, anno 1950 – aggiunge raccontando a Doria nella conversazione che riportiamo per stralci – In carcere a Matera rimasi quarantasette giorni. Una parte di questi accanto alla brandina di Rocco Scotellaro A un certo punto ci separarono. Eravamo gli unici due che lì dentro ci davamo da fare con le lettere dei detenuti. Durante la latitanza mi ero messo in mente che dovevo riprendere a leggere e a scrivere. Con fatica ce le mettevo tutta». Mingo Giannace ricorda ancora, soprattutto un incontro con Scotellaro, l’ultimo: «Tornò a trovarci, me e Antonio Chiellino. Ci portò due soppressate di Tricarico, un dono prezioso in quei tempi così avari. Eravamo contenti, confusi, ma la mia divenne vera commozione quando Scotellaro fece apparire come per magia un libro: si trattava di un sussidiario della quinta elementare. Il messaggio era chiaro. Lo ricordo sempre con un certo orgoglio, questo episodio, ho avuto l’onore di essere l’umile alunno al cospetto di un vero Maestro, tra i più grandi della nostra terra».

a.ciervo@luedi.it

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