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«Viviamo ormai in un clima di alta deperibilità dei concetti e delle parole che li esprimono» dice Vittorio Zambardino. Il dibattito spesso si riduce a questo:

«Ci sono i giornalisti e gli intellettuali vecchio stampo che sono contro la rete e ci sono gli innovatori della rete che hanno capito come stanno le cose. Credetemi, la faccenda non sta in questi termini».

Zambardino pone il problema di come oggi in Italia si stenti a capire la direzione giusta della traiettoria tra sociale e digitale.


C’è un punto sul quale, però, stento a trovare risposte e che riguarda direttamente il lavoro del giornalista. Parlo delle mia esperienza. Sposto il ragionamento a una fase precedente all’ “abitare la Rete”. Mi fermo all’archetipo del contenuto, il primo motore, il fatto, la notizia. In genere l’argomento viene sintetizzato spostando la prospettiva sul lettore, non più reader ma user. Che è speculare a una nuova qualifica soggettiva, non più produttori di notizie ma costruttori di una connessione.


Manteniamoci su questa soggettività, quella di chi genera la notizia. O meglio certe notizie, quelle di cui è fatto, ad esempio, un buon giornalismo d’inchiesta, la capacità di scorticare un contesto e scavare fino a trovare il fatto nudo. In genere sono fatti che hanno meno bisogno di racconto.

Guardo alla mia piccola esperienza, e al silenzio assordante che accompagna la pubblicazione di notizie che restano sparse e non riescono a connettersi. Guardo alle citazioni per danni per si accumulano sulla mia scrivania, penso alle telefonate quotidiane con i miei avvocati, all’agenda dei processi. Il più delle volte sono assoluzioni. Ma la prestazione professionale si paga.

Ci sono due problemi sui quali vorrei che si contribuisse a discutere

  • 1)la responsabilità giuridica di chi scrive

 

  • 2)L’accontamento economico per i risarcimenti, l’assistenza legale (sono rarissime le compagnie assicurative che stipulano polizze ai giornalisti e comunque hanno un costo molto elevato, non sopportabile dal singolo)

 

Se ne deduce che rispetto a questo è molto improbabile, a meno di mecenati dell’informazione, che il buon giornalismo si muova indipendentemente da solidi assetti aziendali. E questo è un problema che non riguarda la diffusione delle notizie, non è un problema di digitale o non digitale. Il digitale, anzi, amplia e accresce la quantificazione dell’offesa (ma la normativa è carente) e pone, semmai, il problema in una dimensione ancora più significativa.

 

La crisi del sistema industriale dell’informazione ha come immediata conseguenza, soprattutto per piccole aziende editoriali che operano nel contesto locale, la parallela crisi del giornalismo d’inchiesta. E il lavoro del giornalista rischia di perdere il suo tratto più caratteriale. E’ rispetto a questo che dobbiamo preoccuparci.


Non è un futuro remoto quello in cui il brand individuale sia tale da sponsorizzare un lavoro legato a una firma e non a una testata. Il singolo può diventare imprenditore di se stesso. Il problema è semplicemente spostato. Se dalla testata ci si sposta al frammento, si porrà comunque il nodo della responsabilità e dunque della sostenibilità di certi contenuti.

Serve dunque un sostegno, che è sostegno alla libertà di una comunità e alla consapevolezza di certe notizie. Può sembrare retorico ma è così. Nella comunità in cui vivo e lavoro ancora oggi il mio giornale, Il qutoidiano della Basilicata, ne dà un esempio. Il punto è: è importante che i cittadini conoscano certe notizia? Secondo me sì. Ma chi si assume la responsabilità giuridica di scriverle? Io me la sono assunta.

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