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La Basilicata è una terra che ha la rara peculiarità d’ospitare un popolo dal nome diverso: il popolo lucano. Questa distinzione sembra il vezzo di un nome d’arte, eppure ha solide ragioni storiche; ed è motivo di sorpresa in tutti quelli che di solito – e non è un luogo comune – misconoscono l’esistenza dell’una e dell’altro. Il cuore del meridione d’Italia, quello che gli Aragonesi elessero a granaio reale assieme alle terre di Puglia, che dispiega senza soluzione di continuità la sua aspra narrazione fatta di sacrificio e sudore lungo la stupefacente eterogeneità del suo territorio, è animato da un’identità molteplice, eppure sempre uguale a se stessa: dialetti che si tengono per mano, e accenti che mutano tonalità all’interno di uno stesso paese, connotano il tratto  molteplice del lucano, dentro e fuori i confini regionali.

 

Già, i suoi confini; al loro interno per secoli si è narrata una Storia di cui in questa sede sarebbe stucchevole ricordarne ogni grandezza, a partire (non in senso cronologico) da quell’imperatore che era detto “lo stupore del mondo” e s’intendeva di falconeria (a proposito: avete già goduto della visita animata al castello di Lagopesole?). Quando però si deve far riferimento alle dinamiche e alle vicissitudini di questo popolo in epoca contemporanea, sono due i grandi temi che prevalgono:il brigantaggio e l’emigrazione(in fondo legati da un’ampia relazione di causa ed effetto).Concentriamoci sul secondo: prima di cominciare a raccontare ogni storia, infatti, credo sia bene ragionare su qualche numero.

 

Considerando che esiste un’Italia fuori dall’Italia, è plausibile affermare che esista anche una Basilicata fuori dalla Basilicata; un’estensione di quel popolo lucano di cui abbiamo parlato. Soprattutto se si rapporta la dimensione numerica della prima all’esiguità (sempre numerica) di quella originaria, che oggi conta su circa 590.000 abitanti (cifra comunque generosa se si tiene presente che molti lucani non trasferiscono la residenza pur vivendo altrove). Al di fuori dei confini nazionali, sparsi nei cinque continenti, vivono oggi circa 700.000 persone lucane o di origine lucana(fonte: P. Simonetti, contributo alla tavola rotonda Ellis Island, 150 anni di storia d’Italia, Columbus Citizen Fondation, ottobre 2008).

 

Prendendo come punto di riferimento il 1876 quale anno della pubblicazione della prima statistica sull’emigrazione italiana, e il 1961 come anno dell’ultima migrazione consistente oltreoceano prima del boom delle migrazioni interne, possiamo stimare in 559.217 il numero dei lucani che sono partiti dalla loro terra, senza farvi più ritorno nella stragrande maggioranza dei casi. Le ondate migratorie possono essere così suddivise:

 

1876-1900   191.433 unità

1901-1915   190.259    “

1916-1942   67.203      “

1946-1961   110.322    “

(fonte: G.A. Stella, L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, BUR, Milano 2003, tabelle illustrative)

 

Dati ancora più definiti e complessivi del periodo 1876-2005 si possono trovare sull’ottimo sito del Museo dell’Emigrazione Italiana (con sede al Vittoriano, a Roma: ci avete fatto un salto?). Vi segnalo il link per il relativo approfondimento:

https://www.museonazionaleemigrazione.it/regioni.php?id=3

 

Secondo i dati riportati da questa entità il totale dei lucani espatriati nel periodo suddetto è pari a 738.854, a fronte di un rientro complessivo di 266.258 persone.

Al di là dei numeri specifici, questi dati sono importanti perché fanno della Basilicata, nel primo periodo della grande emigrazione (1876-1915), la seconda regione per incidenza delle partenze sulla popolazione complessiva(seconda solo al Veneto).

 

Ma dove andavano questi emigranti? Per quali mete partivano, quali le loro terre promesse?

 

Indubbiamente, l’America (settentrionale e meridionale) era la destinazione più gettonata. Se ad esempio prendiamo il periodo 1876-1900, circa 110.000 lucani prendono la via del nuovo mondo: in termini percentuali (da accettare a puro titolo esemplificativo) di quelli diretti verso le Americhe il 56,2% viaggiava verso gli Stati Uniti, il 20,4% verso l’Argentina ed il 16,8% alla volta del Brasile(fonte: A. Trento, Là dov’è la raccolta del caffè. L’emigrazione italiana in Brasile, 1875-1940, Antenore, Padova 1984, pag. 58). In un prossimo intervento considereremo nello specifico proprio il caso brasiliano.

 

Con lo scoppio della prima guerra mondiale si chiude il grande ciclo delle migrazioni italiane e in particolare di quelle dal mezzogiorno del paese verso l’America (anche se nel 1920 espatrieranno ancora più di 12.000 lucani). Tra le due guerre mondiali la quota di cittadini lucani subisce una flessione notevole. Sotto il fascismo, poi, l’emigrazione sarà tappa forzata prevalentemente per i dissidenti politici, costretti a fuoriuscire a causa della loro opposizione al regime;un’emigrazione particolare che aveva un nome appropriato: esilio.

 

Di certo, gli spostamenti oltreoceano alla ricerca di “maggior fortuna” non si arrestano, e riprendono nell’immediato secondo dopoguerra, quando migliaia di italiani intraprendono un viaggio carico di attese, al fine di  lasciarsi alle spalle povertà e assenza di lavoro. All’inizio degli anni Sessanta si affaccia un fenomeno nuovo, quello dell’esodo interno ai confini nazionali, sulla direttrice sud-nord. Il 1961, invece, è di solito convenzionalmente riconosciuto come anno della conclusione delle migrazioni verso l’America (in particolare quella del sud).

 

Oggi, a causa di un peggioramento delle condizioni economiche e lavorative, si assiste a una ripresa del fenomeno migratorio oltreconfine: non ha certo i connotati di un nuovo esodo di massa come quello che interessò i nostri avi ormai più di cento anni fa, ma non va sottovalutato nella sua progressione crescente; non va trascurato anche perché si sta lentamente trasformando in un nuovo e ulteriore segno indelebile sulla pelle di un popolo laborioso, nei secoli avvinghiato alla sua proverbiale dignità ma anche prigioniero di ataviche sofferenze, vissute in un silenzio profondo. Quel silenzio che è sostanza, essenza eterea dei campi sterminati della sua terra. Elemento inscindibile dalla sua identità, dunque; ma che rischia di farci ripiombare in «quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente», come ci disse Carlo Levi.

 

 

 

 

 

 

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