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«A língua è minha pátria- e eu não tenho pátria, tenho mátria – quero fratria», cantava Caetano Veloso nel 1984 (“Língua”, dall’album Vêlo) nel tentativo di avviare, in ambito musicale, un dibattito profondo sul recupero di un’identità nazionale in Brasile. Identità che era stata lacerata dagli anni bui e violenti della dittatura militare (1964-1985), quando all’annichilimento di qualsiasi pratica democratica si affiancò una neo-colonizzazione dei costumi che produsse fenomeni di esterofilia indotta, artificiosa (nella quale trova ragione, tra le tante cose, la diffusione di antroponimi nordamericani, spesso soggetti a bizzarre distorsioni – per fare un facile esempio: Maicon Douglas…)
In questo post rifletterò sullo spazio franco che rappresentano gli idiomi, e le reciprocità che assecondano tra persone apparentemente lontane. Vorrei farlo ragionando sulla lingua portoghese – se io dovessi eleggere una lingua a mia “madrepatria”, a mio spazio geo-identitario, che mi dia l’idea di integrare una grande fratria al di là di una “patria” specifica, ecco quella lingua sarebbe il portoghese. Vi parlerò del mio caso personale, particolare, che però è funzionale a ricostruire un paradigma comune a molti. Perdonerete dunque questo sconfinamento nel biografico, che dato lo statuto assolutamente anonimo dell’autore potrebbe apparire un po’ eccessivo, ma è solamente un pretesto per riflettere su quanto le lingue rendano reciproche esperienze e relazioni che crediamo distanti o allentate.
La mia è una famiglia che racchiude una lunga storia d’emigrazione, come è risaputo elemento comune a tante famiglie lucane. Ho parenti di origine lauriota sparpagliati sia sul territorio nazionale, sia in altri paesi e in altri continenti. Un mio bisnonno (linea materna) emigrò nel dopoguerra in Venezuela, paese che negli anni ’50, durante la dittatura del generale Jiménez, aprì le porte della sua economia a quasi mezzo milione di italiani. Il tentativo di far fortuna sembrava andare bene, era un manovale che trovò subito lavoro nel settore delle costruzioni, in forte crescita; ma l’instabilità politica e il colpo di stato che nel 1958 depose il dittatore determinarono la perdita di ogni bene (prevalentemente depositi correnti) per molti lavoratori stranieri. Perso tutto, la moglie e le quattro figlie rimaste a Lauria dovettero darsi un gran da fare per recuperare la somma necessaria al rimpatrio di un uomo ormai rassegnato e squattrinato. Miglior esito ebbe l’emigrazione negli Stati Uniti di una coppia di miei zii, partiti con l’ultima ondata migratoria, quella a cavallo tra il 1960 e il 1963. Non c’era ancora stato il boom dell’aviazione civile, ci si imbarcava ancora dai porti di Genova e Napoli, affrontando un viaggio estenuante, data la distanza. Oggi i miei relatives che vivono tra New York e la valle del fiume Hudson sono un esempio piacevole e soprattutto poco stereotipato di identità italo-americana.
Segmenti di linea paterna della mia famiglia – quella che porta il mio stesso cognome – emigrarono all’inizio del Novecento in Brasile, insieme ai tanti di cui abbiamo già parlato in post precedenti. Un fratello e una sorella del mio bisnonno si trasferirono a Rio de Janeiro, e di loro lentamente si persero le tracce, date le difficili comunicazioni d’allora. Poi venne la seconda guerra mondiale, l’Europa in preda alla catastrofe, i figli al fronte, e ogni tanto giungeva qualche lettera e qualche notizia, che attestavano come dall’altro capo del mondo ci fosse lavoro; la famiglia cresceva, e dal negozio del padre calzolaio si era passati all’ufficio di dirigente della metropolitana della città carioca, occupato da uno dei figli di quell’emigrante.
Poi un lungo silenzio, vite che finiscono, rapporti che si smarriscono, memorie che si perdono. Fino a qualche anno fa, ignoravo totalmente questa storia della nostra ascendenza: ogni tanto mi incuriosiva cercare i “Cassino” nel mondo attraverso la directory di Skype, e mi divertivo a immaginare connessioni familiari con ognuno di loro; sostanzialmente, data l’esiguità del nostro nucleo familiare nel comune di origine, pensavo che tutti quei cognomi omonimi rappresentassero unicamente la grande diaspora moliternese, cittadina (Moliterno) da cui mosse uno dei miei avi, e in cui questo cognome è davvero molto comune. Neppure quando ho vissuto in Brasile, e ci sono stato per un po’, mi sono posto il problema dell’esistenza di un segmento familiare tropicale: frequentavo assiduamente la comunità dei lucani a Rio, nella loro bella sede con vista sul Pão de Açucar, vicino al consolato italiano, ma mai una presenza o un riferimento a quei Cassino d’America.
Poi un giorno (ero di nuovo in Italia) sovvenne un riferimento a questi emigranti ormai per noi smarriti non solo nel tempo e nello spazio, ma anche nella memoria. A un indizio se ne aggiunse rapidamente un altro, si raggrupparono prove di una presenza che non poteva essersi smaterializzata né tantomeno estinta. Su Skype cominciavano a sorgere nominativi che erano più di semplici suggestioni, iniziai a scrivere messaggi nella mia nuova lingua, il portoghese, che affrancò lo spazio della memoria e del sentimento nel momento esatto in cui ottenni una prima risposta: esisteva ancora una grande dimensione latinoamericana in cui scorreva sangue simile al mio. Il passato diventa presente, riaffiorano i parenti del Brasile, riaffiorano percorsi di vita che sono la nostra storia. Mi ritrovo con una famiglia ovviamente già molto allargata, che dalla metropoli carioca si è diffusa in tutto il subcontinente brasiliano, mettendo radici a Belo Horizonte, a Brasilia, addirittura nell’antica e leggendaria Ouro Preto. Il portoghese diventa un’autostrada su cui si fanno scorrere pezzi di raccontie di ricordi utili a ricomporre il mosaico delle nostre comuni origini. Cosa fate e cosa avete fatto in tutti questi anni, quando é que a gente volta a se encontrar? Una lingua che all’epoca doveva sembrare ermetica, impenetrabile a quei miei avi che piangendo dissero addio a luoghi e affetti senza più rivederli, e che invece oggi è ambito di un richiamo ineludibile e ancestrale attraverso il quale proprio loro rivivono, riprendendo forma nelle nostre parole.
Ad aprile, però, accade l’evento più bello e inaspettato. Sul profilo di un social network di una cugina ritrovata compare una foto della città in cui sto vivendo. La mia sorpresa è grande, provo a contattarla, lei risponde al messaggio, mi conferma d’esser qui. Decidiamo subito di incontrarci. L’emozione è difficile da nascondere, così come la curiosità. È un albergo elegante, quello in cui lei e suo marito hanno deciso di pernottare. La porta dell’ascensore si apre, esce una graziosa donna di mezza età, dalla figura esile e leggera. Ci osserviamo viso a viso, capiamo subito di che pasta siamo fatti, è una morfologia speculare la nostra. I suoi lineamenti sono quelli delle donne del mio lato paterno; nei suoi occhi c’è mia sorella, e mia zia Michelina, se lo sapesse quest’ultima che ha una nipote che le somiglia tanto ma di cui ne ignora l’esistenza!
Le strade acciottolate di Lisbona divengono così il percorso di un lungo flashback, riflesso in quegli occhi che, in fondo, solo gli stessi di chi si imbarcò novanta anni fa per prendere parte alla grande epopea colonizzatrice di un continente, e che ora ritornano a incrociarsi nei miei, così avvezzi alla lettura di una lingua comune. Siamo due Cassino con origini nella valle del Noce, ma parliamo una lingua piena di suoni nasali che vive lontana da quelle colline. Almeno apparentemente. Perché il portoghese si rivela in me come «mátria», mi accompagna nelle mie mille patrie che sono tante e nessuna, ed è veicolo di recupero di una memoria familiare per quelli che non la parlano, e semplicemente la immaginano. «A nossa pátria é a língua portuguesa», potremmo affermare declinando al plurale Fernando Pessoa, mentre la mia fratria compie il suo rito di iniziazione, e si avvia una discussione che diventa giornaliera, si ricostruisce l’album di famiglia, che parte da quelle foto, ormai consumate dal tempo, di quei parenti di cui non sapemmo più nulla. Ogni immagine è un tassello della mia memoria familiare, che si riproduce al di là della nostra memoria naturale. Ogni tratto riconosciuto è un palpito di cuore che copre le nostre apparenti distanze.
La lingua portoghese, sia chiaro, è solo un caso, il mio. Le mille lingue del mondo, soprattutto quelle che oggi possiamo studiare e finalmente apprendere con una certa agevolezza data la grande facilità all’incontro con altre culture, ci avvicinano a pezzi della nostra storia che magari pensiamo smarriti per sempre o, peggio, ignoriamo. Considerati i luoghi in cui i lucani sono emigrati, l’inglese, il francese, lo spagnolo, il portoghese sono infrastrutture solide su cui far correre ad alta velocità le connessioni della nostra memoria, del nostro ricordo. Le lingue diventano ambiti di nuovi incontri, in cui scrivere nuove storie, nuove (auto)biografie; in cui narrare la grande storia della lontananza, della riscoperta, dell’accoglienza. La grande famiglia lucana si ricompone, così, lentamente. La valigia non contiene più la fuga frammentaria della disperazione, ma l’immagine ormai ricomposta del sentimento.

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