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È tempo del Natale e, come da ricorrenza tanti lucani che vivono fuori, compreso il sottoscritto, rientrano in patria (parola che qui considero nella sua accezione originaria, ossia luogo paterno, terra natia che nel mio caso si estende dalle vette del massiccio del Sirino alla foce del fiume Noce). Una delle cose che credo piaccia fare ai lucani di ritorno a casa per le feste natalizie, oltre ovviamente a passare del tempo in famiglia e a misurarsi con pantagrueliche abbuffate, è approfittare del tempo libero per visitare o rivisitare quei luoghi la cui quotidianità è negata dalla lontananza. E questo ho fatto anche io, in una piacevole occasione presentatasi in questi giorni, partecipando insieme ad altri amici dell’ISSBAM – Istituto di Studi Storici per la Basilicata Meridionale – a un interessante appuntamento nel comune di San Costantino Albanese; incontro dedicato alla memoria, ricerca storica e cultura arbëreshë. Già, la cultura arbëreshë: straordinario tesoro di saperi, arti e tradizioni custodito in alcuni comuni delle nostre terre lucane, come Barile, Ginestra, Maschito e gli insediamenti in pieno Parco Nazionale del Pollino (San Costantino, appunto, e San Paolo Albanese).

La diaspora albanese in Italia meridionale (consistenti sono le comunità arbëreshë in Calabria, Puglia e Sicilia, con non trascurabili presenze – oltre che in Basilicata – in Molise e Campania, e più marginalmente in Abruzzo) ha una storia antica, cominciata già nel XV secolo in concomitanza con l’espansione turca nei Balcani e protrattasi nel corso dei secoli e in diverse ondate (le comunità lucane sorgono nel XVI secolo). Pensate che di questi arrivi di massa ne sono stati contati ben nove, e tra esse si contempla anche l’ultima avviata nel 1991, con l’ondata di sbarchi sulle coste italiane dopo la caduta del regime comunista di Tirana. L’area geografica degli insediamenti albanesi nella parte meridionale della nostra penisola viene detta Arberia, come d’altronde era denominata nel medioevo la loro terra d’origine.

La cultura italo-albanese si manifesta innanzitutto nell’uso di una lingua che, sebbene poco convergente con l’albanese contemporaneo (l’Albania di oggi è frutto di quasi cinque secoli di dominazione ottomana, e si è resa indipendente nel 1912), rappresenta un ponte culturale tra queste terre divise dal mar Adriatico, con un valore riconosciuto per la nostra storia e cultura, in quanto gruppo linguistico tutelato come minoranza. È una lingua che presenta particolarità dialettali peculiari a ogni comunità, comunque riconducibili a varianti evolutive della lingua albanese-tosca (toskë), che era quella che si parlava nel medioevo nell’Albania meridionale (ossia l’area geografica da cui si mossero i flussi migratori verso il meridione d’Italia) e che è tuttora di uso comune.

Vi sono poi una serie di costumi, pratiche e riti che, se conosciuti, ci aiutano ad avere un’idea più chiara sul distanziamento che intercorre tra essi e il nostro bagaglio culturale di matrice cattolica. La religione è uno degli ambiti di massima espressione di questa alterità: infatti, pur facendo riferimento alla Chiesa di Roma, il rito liturgico seguito non è quello latino, bensì quello greco-bizantino (od orientale). Infatti quando i primi gruppi di albanesi giunsero in Italia alla metà del Quattrocento per mettere a servizio di Alfonso V d’Aragona, re di Napoli di cui erano alleati, le loro abilità militari, la Chiesa riconobbe loro il diritto di mantenere il rito orientale, che nel corso del tempo ha permesso di evitare una loro piena assimilazione nella tradizione autoctona.

Questo ci permette oggi di assistere alla magnificenza di questo particolare rito, officiato dai pápas, i sacerdoti appartenenti alle diocesi italo-albanesi (o Eparchie, in Italia due, a Lungro [Cs] e Piana degli Albanesi [Pa]), che si connotano per l’uso dei tipici copricapi cilindrici; e poi per la decorazione dei luoghi sacri, caratterizzati dall’assenza di statue (abituali nella chiesa cattolica) e dall’abbondanza di icone. Le icone sono immagini sacre collocate su quella tipica struttura in legno, detta iconostasi, che divide il luogo di permanenza dei fedeli (navata) da quello esclusivo per il clero (santuario), in cui è ubicato l’altare.
Dunque, le chiese dei paesi di cultura arbëreshë sono, a mio modesto parere, l’elemento di maggiore interesse artistico per le meraviglie cromatiche che custodiscono al loro interno: entrarvi e ammirare gli imponenti mosaici, i vivaci affreschi e le sfavillanti icone di santi e madonne è una una finestra sulle le atmosfere dell’oriente. Si tratta di un’arte sapientemente custodita e tramandata dalle mani di maestri che sono parte integrante di quella diaspora e di quella cultura. La chiesa di San Costantino (consacrata ai santi Costantino ed Elena), ne è un valido esempio. Qui hanno operato due dei più grandi artisti albanesi della seconda metà del XX secolo (nonostante la giovane età, all’epoca): Josif e Liliana Droboniku, tutt’ora in fiorente attività (un paio di anni fa hanno curato le decorazioni della nuova cattedrale di Tirana, dando vita a uno straordinario mosaico di 50 mq; lui, tra le altre cose, è uno dei co-autori del mosaico a tema folklorico e in stile real-socialista della facciata del museo nazionale della capitale albanese). Il loro “giudizio universale” dipinto sul versante interno della facciata vale, da solo, il viaggio nella valle del Sarmento.

È uno straordinario trionfo di cromature dettate dalla maestria nella scelta delle tonalità: all’ingresso del tempio ci si trova infatti davanti a una pittura murale che dà l’effetto di un insieme di icone classiche che si rincorrono in uno spazio ampio; il tema biblico si fonde con la tradizione della reinterpretazione dell’argomento: la presenza di demoni e sorprendenti animali mitologici ci riportano ai contesti immaginifici di Hieronymus Bosch.
Vista dalla giusta distanza la parete appare ricoperta di lamine d’oro sospese tra colori sgargianti, in cui la predominanza del rosso e del blu impongono all’occhio umano l’ipnosi su vesti fissate in una sacralità profonda; mentre la perfetta combinazione cromatica e il risultato complessivo dell’affresco ci conducono al devoto riconoscimento della natura e della sapienza del suo utilizzo reale e figurato. Mille mani immaginarie giocano con fulgidi tuorli d’uovo, il cui uso come collante ha nella pittura bizantina un ruolo fondamentale. Di fronte a cotanta grazia si può davvero restare a bocca aperta, soprattutto se si è dotati di un minimo di sensibilità al bello, e se osservando si acquista coscienza che queste meraviglie sono gelosamente conservate negli angoli più reconditi di questa nostra terra che non smette mai di sorprendere. Josif e Liliana Droboniku dividono la loro vita tra Tirana e Altomonte (Cs), dove si trova il loro atelier; in Italia sono arrivati agli inizi degli anni ’90, in nave, come tanti fratelli albanesi.

Dunque, quello che dal cuore mi viene di suggerirvi in questi giorni di festa è provare a sollevarvi dall’overdose consumistica che troppo spesso ci conduce a spendere il nostro tempo libero nei santuari dell’appagamento materiale (spiritualmente poveri e falsi come la merce che spesso ci propinano). Provateci organizzando una gita nei paesi lucani di cultura arbëreshë, ne varrà la pena e vi aiuterà a capire quanto la Basilicata sia, contestualmente, terra d’immigranti e terra d’emigranti, «terra ca’ tiene ‘e porte semp aperte a tutt quant’», volendo citare un celebre motivetto dei Krikka Reggae. Andate a Barile, Maschito e Ginestra, e se vivete nell’area sud approfittatene per fare un salto a San Costantino e San Paolo. Visitate le loro chiese e i loro musei etnografici, che ben espongono l’atavica empatia tra cultura italo-albanese e civiltà contadina di montagna, in pieno Parco Nazionale del Pollino. Quando sarete lì, provate a fare un salto, senza timori, nella loro memoria storica e nella loro lingua: parlate con la gente, troverete una ricchezza, forse per molti inaspettata, che si esprime soprattutto in un grande senso dell’accoglienza. Lo stesso che si può trovare in Albania, quella patria lontana su cui ancora oggi aleggiano stupidi pregiudizi, intrisi di profondo rifiuto alla conoscenza dell’altro. Che poi tanto altro non è, come ci insegna la storia di questi ultimi cinquecento anni. Usa Urime!

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