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 La recente notizia (pubblicata Lorenzo Zolfo su Il Quotidiano del 4 settembre) del conferimento della cittadinanza onoraria da parte del Comune di Ripacandida a Bob Rita, senatore americano dell’Illinois e uomo vicino al presidente Obama, discendente di lucani che decenni or sono attraversarono l’oceano in cerca di una vita migliore, fa luce su uno degli ultimi casi di successo delle discendenze lucane all’estero: sono celebri, infatti, quelli di personalità quali Francis Ford Coppola, il pluripremiato regista nipote di un bernaldese che aveva fatto lo stesso tragitto dei nonni del senatore dell’Illinois; o di Rocco Petrone, straordinaria mente della NASA e regista dell’operazione Apollo 11 (1969, quella del primo uomo sulla luna), i cui genitori erano partiti dalla piccola comunità di Sasso di Castalda (luogo incantevole, e questo è un consiglio turistico).

Ma se queste storie testimoniano casi di successo, tantissime altre di cui non sappiamo nulla sono gocce nel mare prosopografico dell’emigrazione lucana; storie di piccole conquiste, di tranquillità raggiunte, ma anche di enormi difficoltà e “fallimenti” (per quanto esemplificativo sia nella logica del discorso, questo termine conserva sempre un’odiosa connotazione economica che poco si adatta a misurare i drammi della vita privata). Ogni singola vicenda, però, ha dovuto fare i conti con un preambolo, spesso determinante, che non era rappresentato dalla partenza dal luogo di origine; bensì dall’arrivo a destinazione. Ecco, l’arrivo, gli arrivi. Questa volta concentriamoci su questo aspetto.

I lucani sono arrivati in ogni angolo del mondo, lo abbiamo detto. Ma volendo assumere un paradigma del luogo e del concetto, non possiamo prescindere dalla destinazione americana o, per essere più precisi, statunitense. Per il suo portato immaginario di terra promessa, l’arrivo in America (USA) è da sempre la raffigurazione simbolica dell’emigrazione mondiale; un elemento storico globale che sul piano iconografico ha una forza evocativa senza pari. All’arrivo in America, le navi passavano davanti al simbolo più celebre di quella terra: la statua della Libertà. Il lucano-discendente di cui sopra (Coppola) lo rende bene nell’epica II parte del suo film più famoso, Il Padrino. Vi passavano senza fermarvisi, e andavano oltre per qualche chilometro ancora, per giungere nel luogo in cui l’arrivo acquisiva la sua prosopopea, assumendo le sembianze di una divinità dispensatrice del bene o del male: Ellis Island, luogo del passaggio, o del respingimento.

È questa un’isola che per molti anni è servita da frontiera d’America per gli emigranti di tutto il mondo. Qui arrivavano le navi cariche di passeggeri; qui si facevano i primi controlli; i primi test attitudinali; qui si prendeva contatto con il nuovo mondo, la nuova lingua, l’aria nuova con un odore diverso da quello annusato per anni in terre lontane e amene. E se, come recitava la celebre canzone di Libero Bovio, «‘nce ne costa lacreme st’America a nuje Napulitane!», non meno ne hanno versate i lucani che da lì sono passati, a migliaia, nella speranza di andare oltre la porta di un Eden che immaginavano biblico, nel quale dimenticare stenti, sofferenze e fatiche. Uno spazio che poi si rivelava nella sua durezza empirica, e in cui avveniva l’inesorabile presa di coscienza della propria precarietà esistenziale. Così, a compimento e distruzione del mito, l’oceano appena attraversato si trasformava in un Acheronte; l’approdo sull’isola assumeva le sembianze di un arrivo senza speranza nell’Ade; l’incontro col nuovo mondo dispiegava l’infernale dimensione del diseredato, della lingua incomprensibile, dello sfruttamento, della miseria.

I mass media (particolarmente il cinema) hanno spesso e volentieri rappresentato l’emigrazione come epopea romantica, intrisa di sentimentalismo, volta a tracciare un percorso sì difficile ma –  nell’imposizione di un linguaggio hollywoodiano – a lieto fine. Un’ampia letteratura a riguardo, la storiografia e le memorie orali e collettive ci permettono di sapere che non fu così, perlomeno non sempre in accordo a canoni artefatti. E se pure volessimo seguire quel criterio molto americanizzato che si basa sulla netta dualità successo/fallimento, dovremmo comunque dire che forse veramente in pochi “ce l’hanno fatta”: a raggiungere vera ricchezza, agiatezza, popolarità. Fuori da quello schema, possiamo più tranquillamente affermare che per molti l’emigrazione ha significato il raggiungimento di un livello di esistenza accettabile, misurato su un basilare accesso al consumo ma comunque sempre in un contesto generalizzato di proletariato urbano. Questo discorso riguarda ovviamente le prime generazioni migranti; le loro discendenze hanno avuto altre opportunità, di studio e di lavoro, che le hanno traghettate verso un anelato imborghesimento.

Restano comunque tanti quelli che non riuscirono ad adattarsi alla nuova realtà culturale, economica e sociale, a una diversa organizzazione del lavoro; spesso, più semplicemente, non ressero alla solitudine (anche in questo il cinema ci aiuta molto: solitudine, illusione e incomprensione sono magnificamente visibili in quel racconto triste che è Permette, Rocco Papaleo di Ettore Scola). Molti non sopravvissero alla divisione delle famiglie: a Ellis Island non tutti riuscivano a passare. Infatti, nella terra delle opportunità e del capitalismo bisognava innanzitutto dimostrare di essere abili al lavoro, e di non costituire un appesantimento per una società tutt’altro che inerte. Era perciò impossibile riprodurre in pieno le strutture sociali che, per esempio, caratterizzavano il meridione d’Italia; nonostante ciò gli italiani – e i lucani – si portarono dietro un bagaglio di tradizioni ed usi che seppero riprodurre per quanto possibile nelle varie Little Italy.

Oggi la tecnologia ci permette di recuperare la memoria di quegli approdi, grazie alla digitalizzazione dell’archivio degli arrivi (https://www.ellisisland.org/). Digitando il proprio cognome, quello di qualche conoscente o uno dei gentilizi diffusi nei vari paesi lucani è possibile immaginare i volti, le ansie e le speranze di quelli che si apprestavano a passare dall’altro lato; cosa provassero a dire, cosa realmente comunicavano, come si esprimevano. Quello che ci restituiscono i vari siti su cui poter fare ricerca è davvero il prezioso contenuto di un bagaglio ritrovato che appartiene a tutti (questo è uno dei migliori: https://www.libertyellisfoundation.org/passenger)

Come è ovvio, ogni tempo ha i suoi codici e le sue consuetudini, le sue norme e le sue dinamiche. Ellis Island è stata chiusa nel 1954 e chi è arrivato dopo ha solo dovuto sopportare l’attesa neppure prolungata dei controlli di dogana in aeroporto (il viaggio in nave, ancora comune agli inizi degli anni ’60, è stato rapidamente sostituito in quella decade); oggi, all’arrivo al JFK International Airport di New York, si mette un dito sul display per le impronte digitali, si risponde a qualche semplice domanda, si ottiene il visto temporaneo per tre mesi. Certo, sarebbe interessante capire come chi oggigiorno emigra in America viva appunto il momento dell’arrivo; e per “America” intendo latu sensu, “l’America” in cui ognuno di noi prova a sognare un futuro diverso, più stabile, non eccessivamente agiato. Studi di settore non mancano; ad ogni modo sarebbe interessante capire come i lucani vivono quello che rimane pur sempre un trauma del distacco, come lo relazionano all’attuale condizione e dimensione della nostra regione. In passato la rivista Mondo Basilicata  se n’è occupata, però non mi risultano nuove pubblicazioni; ad ogni modo vi indico il link perché si trovano letture interessanti:    https://www.consiglio.basilicata.it/consiglionew/site/consiglio/section.jsp?sec=101152&otype=1040&catPubblicazione=100242&anno=2011

 

In conclusione, vi dico che mi sarebbe piaciuto raccontarvi le mie personali sensazioni (un blog serve anche a questo) di una visita a Ellis Island, al suo museo che a detta di chi ha avuto la fortuna di visitarlo è un luogo di inevitabile commozione; lo scorso anno, trovandomi negli Stati Uniti, ci sono andato appositamente, salvo scoprire con amarezza che nell’efficiente America, a distanza di più di un anno dall’uragano Sandy che ne aveva danneggiato i locali, ancora non avevano provveduto alla riapertura del sito. È stata una grande delusione quella di non poter entrare in quei fabbricati, non poter condividerne la carica emotiva a cui è difficile restare indifferenti. Prima o poi ci riproverò; intanto, se vi capitasse di essere da quelle parti, fatene una tappa obbligata. Della nostra memoria. New York City non finisce sulla 5ª Strada. 

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