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Il suo compito sarà quello di far sentire il fiato sul collo a Regioni e ministeri per non ripetere la sequela di ritardi, inadempienze e sprechi che hanno tristemente segnato l’utilizzo dei fondi europei della programmazione conclusa nel 2013. Da come e da quanti se ne spenderanno nei prossimi sei anni, e sul piatto ci sono 41 miliardi, dipenderà anche la possibilità, soprattutto al Sud, di accendere concretamente i motori della crescita, che resta comunque vincolata al rigore dei bilanci e a stime del Pil che crescono meno di tutta la zona euro. Maria Ludovica Agrò è stata scelta dal governo tra cinquanta candidati ma è una scelta “interna”: viene dal Mise, dove è stata direttore generale delle politiche industriali con particolare riferimento alla competitività delle Pmi, ha lavorato a stretto contatto con Fabrizio Barca, che nel tempo breve del suo ministero, ha dimostrato che far spendere di più e meglio le risorse di Bruxelles soprattutto alle regioni meridionali, è possibile. La Agrò seguirà probabilmente la strada tracciata da Barca e potendo avvalersi di una struttura che prevede fino a duecento dipendenti, selezionati tra quelli già in forza al Dipartimento delle politiche di sviluppo del ministero, dovrebbe riuscire a cogliere quegli obiettivi “sonanti” che il governo Renzi considera irrinunciabili. Vedremo se all’Agenzia basterà esercitare il ruolo di interfaccia e di sussidiarietà tecnica rispetto alle Regioni o se, come da molte parti si ritiene, allargare la potestà a poteri sostanzialmente di commissariato. Tra i compiti dell’Agenzia, e in attesa di conoscere nel dettaglio anche lessicale il decreto, dovrebbe esserci anche quello di vigilare sulla spesa delle Regioni. Dalla Agrò e dalla sua task force non si può pretendere tutto e subito. Riuscissero a dare efficienza, certezza e utilità ai fondi europei, avrebbero  compiuto una discontinuità epocale e basterebbe. Ma proprio dentro questa speranza, non si può non collocare il tema della qualità della spesa pubblica delle Regioni, diventata nel frattempo un labirinto nel quale si coglie, come ha fatto la Ragioneria generale dello Stato, un dato che riguarda il Mezzogiorno: il dato della spesa pubblica al Sud si attesta  a quota 73 per cento, con punte del 78 in Calabria, non incrocia neanche lontanamente la qualità dei risultati. Emblematico il capitolo sulla scuola, che insieme a sanità e sicurezza, costituisce uno dei principali investimenti della spesa pubblica: in Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna si spende più della media nazionale senza che si registrino miglioramenti su competenze e dispersione: l’Invalsi conferma  anche quest’anno il gap  di apprendimento dei bambini meridionali rispetto a quelli del Centro-Nord; Isfol e Censis attestano che la dispersione scolastica al Sud ha raggiunto picchi superiori al 20 per cento. E dire che un bambino che frequenta le elementari in Calabria costa 394 euro, a fronte dei 260 del Lazio, dei 226 della Lombardia, dei 240 del Veneto. C’è poi la spesa sanitaria. il Lazio guida la classifica con 1.967 euro pro capite. Al Sud primeggia il Molise (1.809), seguito da Campania (1762), Basilicata (1.677), Puglia (1.575) ma questo non basta a coprire i costi, così le regioni meridionali applicano una aliquota  Irap che schizza a 4,97% mentre quelle del Nord si fermano al 3,9. Un meccanismo perverso e penalizzante due volte perchè incide sulle tasche dei cittadini e abbastanza direttamente sui conti delle imprese. Ci sarebbe anche dell’altro nel labirinto degli oltre 250 miliardi che vengono distribuiti regione per regione. Intanto lo “scudo” degli Statuti speciali che incoraggia politiche dissennate che si trasformano in veri e propri sperperi. Come in Sicilia dove la spesa per il personale è di 350 euro ad abitante: un miliardo e ottocento milioni di euro, otto volte in più della Lombardia che di abitanti ne ha il doppio o nella Provincia autonoma di Bolzano, dove i miliardi tondi tondi sono due. Cifre che se non fanno rabbrividire, dovrebbero far riflettere se si pensa che per il personale dipendente le altre quindici regioni a Statuto ordinario spendono 2,3 miliardi. Molto si puntava sul federalismo fiscale, se accompagnato dalla responsabilità degli amministratori e da reali controlli sulla spesa. Dunque, l’Agenzia di Maria Ludovica Agrò, un pensierino ce lo faccia sui soldi pubblici spesi, come ricorda Fabrizio Pezzani, ordinario alla “Bocconi”, “secondo logiche di welfare mascherato e non come stimolo per crescita e produttività”.

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