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«Mio nonno emigrò qui dalla Basilicata nel 1899. Ne abbiamo prove sicure, dalle corrispondenze incrociate tra lui e i familiari. Eppure mi è stato impossibile trovare una traccia del suo passaggio alla dogana. Perché? Con ogni probabilità ha cambiato nome, forse anche nave: un vero clandestino, un immigrato illegale e senza documenti, come moltissimi italiani di quel tempo»: a raccontarlo è Stephen Briganti, chief-executive della Statue of liberty – Ellis Island Foundation, che ha fatto da guida a Federico Rampini durante la sua visita in anteprima nella struttura della baia di New York che tra fine XIX e metà XX secolo accolse centinaia di migliaia di stranieri da tutto il mondo (qui l’intervista a Briganti). Tantissimi dall’Italia, e molti di questi dal Sud. Al corrispondente di Repubblica, Briganti – a capo della fondazione che ha finanziato i lavori – ha illustrato le novità che i visitatori di questo centro d’accoglienza ante litteram troveranno alla riapertura, mercoledì 20 maggio, del Museo dell’immigrazione ospitato nell’antico arsenale sull’isolotto dell’Hudson, ristrutturato e ampliato oltre che fornito di nuove strumentazioni tecnologiche.
In quella che è sempre di più una tappa immancabile per i turisti che non si fermano alla solita visita nella Grande mela, si arricchisce così il percorso di educazione all’accoglienza nel tempo in cui il Mediterraneo è un cimitero subacqueo di profughi e la Ue s’interroga sulle misure da adottare, chiamando a raccolta il Paesi dell’Unione. Il nuovo spazio museale newyorchese, infatti, non omette di trattare la xenofobia e i vecchi e nuovi razzismi made in Usa, presentando un racconto che interpella le paure dell’Europa, scrive Rampini, e in certo senso suggerisce idee e spunti per le politiche dell’immigrazione sulla base di fallimenti (vedi la militarizzazione del confine col Messico) e successi (il boom delle Green card).
Con la Statua della Libertà significativamente sullo sfondo, fino al 1954 (anno di chiusura) la struttura di Ellis Island accoglieva, respingendoli in caso di malattie, gli immigrati in cerca di realizzare il loro sogno americano (assolutamente da vedere a proposito il film “Nuovomondo” di Emanuele Crialese). «Era una specie di maxi-Lampedusa – si legge su Repubblica – dove le maniere erano a dir poco rudi». E dove l’incubo di un lucano di fine Ottocento oggi rivive nel sogno realizzato dal nipote negli stessi locali che, in un modo o nell’altro, aprirono al nonno la porta del riscatto.

e.furia@luedi.it

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