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Gli effetti del terremoto del 1980 a Vietri, nel Potentino

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È alle 19,34 che la terra trema, tra lacrime e urla. Niente sarà più come prima in questa parte di profondo Sud. Roma sottovaluta il dramma, il freddo complica i soccorsi. Gli sciacalli, l’attacco di Pertini, i sindaci eroi e la camorra


OGGI ricorrono i 39 anni dal terremoto dell’Irpinia e Basilicata; ripubblichiamo la testimonianza di un cronista sulla tragedia, uscita per la prima volta sul Centro, il 23 novembre del 2010

È un dolce autunno quello del 1980. Novembre arriva ma nessuno se ne accorge. C’è il sole, in Campania si gira con le maniche corte, la gente si prepara all’inverno con allegria. L’Italia è inquieta. Sono passati due anni dalla barbara esecuzione di Aldo Moro, il Paese è sempre risucchiato nell’orrore. A giugno un aereo è caduto a Ustica. Il 2 agosto un’esplosione ha devastato la stazione di Bologna, affollata di viaggiatori. I giornali sono pieni di trame e intrighi. C’è la P2 che tiene banco e fa paura: collegamenti con la mafia, gli apparati dello Stato infiltrati dai mascalzoni fedelissimi di Licio Gelli. Al Quirinale c’è Sandro Pertini. Andreotti è sotto accusa per i suoi ammiccamenti con le forze oscure. In Campania imperversa la legge della camorra di Raffaele Cutolo, il boss di Ottaviano che sta sfidando i clan storici della malapianta.

Il 23 novembre è una domenica stupenda. In mattinata a Salerno c’è una grande manifestazione del Pci. Chi mette le bombe e attacca la democrazia? È dal 1969 che il Paese è sconquassato dagli attentati e dalle stragi. Il lungomare è pieno di gente. La giornata fila via tranquilla. A sera nelle case tutte le luci sono accese. Gli ascensori vanno con le 5 o le 10 lire. Non ci sono telefonini, non c’è internet, in pochi hanno telecomando e tv a colori. Non ci sono i canali dello sport a pagamento. Per i tifosi l’appuntamento è per le 19, un tempo registrato di una partita di calcio. Tocca al derby dei derby: Juve-Inter. Molti non sanno neanche il risultato, vogliono godersi questa ora di calcio come se fosse in tempo reale. È alle 19,34 che la terra trema. Una scossa forte, interminabile. Parte subito con grande intensità, annunciata dal tintinnio di bicchieri e piatti nelle credenze. Sembra rallentare. No, accelera, scuote, stordisce. Va via la luce, il cielo diventa cupo. L’orizzonte si muove, sembra non allinearsi più. È un terremoto terribile: novanta secondi, interminabili, carichi di morte e distruzione, di urla di terrore e di disperazione. Lacrime. Lacrime. Lacrime. Senza nemmeno sapere quello che sta accadendo. Lacrime e urla.

La scossa è finita, niente sarà più come prima in Campania e Basilicata. Quando la terra si ferma ci sono numeri da catastrofe, ma ci vorranno giorni e giorni per rendersene conto. Il terremoto ha avuto un’intensità di 6,9 della scala Richter, con epicentro tra i comuni di Teora, Castelnuovo di Conza e Conza della Campania: 2.914 morti, 8.848 feriti, 280mila senza casa. Coinvolte otto province: Avellino, Benevento, Caserta, Matera, Napoli, Potenza, Foggia, Salerno. Sono 506 i paesi danneggiati. E adesso? Non c’è la Protezione Civile. A Roma nei palazzi della politica ci sono feste e ricevimenti. «C’è stato un terremoto nel Sud», si sussurra, senza specificare. Ma chi piglia l’iniziativa di domenica sera? Nessuno percepisce la dimensione del disastro. Mancano le comunicazioni, sono crollati commissariati, caserme dei carabinieri. I prefetti sono in vacanza. Il popolo del terremoto è solo. Lo scenario è apocalittico. Da sotto le case crollate arrivano richieste di aiuto strazianti. Ma non si sa come intervenire, che cosa fare. Ci si affida ai volenterosi. Qualcuno rimedia una ruspa, un trattore, qualsiasi mezzo in grado di spostare macerie. Si parte decisi, poi si crolla avviliti, vinti. I parenti e gli amici scavano con le mani insanguinate. Dialoghi drammatici, imprecazioni, tra chi chiede aiuto e chi non può portarlo. Non arriva nessuno nelle prime 48 ore. Perché lo Stato è lontano. In un altro universo. Distratto. Non sa che bisogna affrontare una delle più grandi catastrofi della storia italiana.

Solo dopo cinque giorni i paesi martoriati dal terremoto saranno raggiunti dai reparti dell’esercito. Ma c’è una confusione infernale. I primi aiuti avvengono nel caos, senza nessun coordinamento. Non si sa come organizzarsi, da dove partire, che cosa portare e dove. I soldati sono ragazzi generosi ma inesperti, ogni tanto qualcuno sviene tra le macerie quando dalle case-bare riemergono corpi maciullati. I giorni passano, i sindaci sono disperati. Chiamano i giornali. «Mettete il mio comune tra quelli colpiti, qui non abbiamo da bere, mangiare, ci manca tutto. Ma è possibile che nessuno ci venga a dare una mano?». Molti hanno ancora gente che strilla e impreca da sotto le macerie ma non c’è chi scava. A svolgere un ruolo fondamentale sono i radioamatori: sono loro che raccontano nell’etere i nomi, i volti, i luoghi della tragedia. Che guidano le colonne di un esercito confuso che non conosce strade, paesi, comunità del territorio che dovrebbe difendere. Poi, arriva il silenzio. Il silenzio della morte.

Nelle viuzze dei paesini cancellati dalla furia della natura e dalla insipienza degli uomini non ci sono più agonie. Solo il nulla. Arrivano i camion con la creolina per ricoprire quello che una volta erano case, villette, officine, negozi, uffici, famiglie, condomini. L’incubo è il colera. Quel tanfo che entra nelle narici girando tra gli spettri di pietre e mattoni provoca nausea. Per chi l’ha vissuto è rimasto nel naso per mesi e mesi, insieme alla sensazione di impotenza e di appartenenza a una nazione stracciona, a una razza povera e inferiore. Scrive Domenico Rea: «Siamo morti infarinati, come pagliacci di un circo equestre, in più soltanto un filo di sangue dalla bocca. E così siamo morti da emarginati, da antichi clandestini della storia». Il freddo complica tutto. In Irpinia e in Basilicata arriva la neve. Gli sfollati non sanno dove ripararsi, come nutrirsi. Manca tutto. Poche ore dopo la scossa una busta di latte viene pagata dieci volte il prezzo. Anche l’acqua costa cara. La generosità degli italiani fa arrivare i primi camion carichi di coperte, giubbotti, cappotti: vengono assaltati in un clima da giudizio universale.

L’autista di un Tir carico di radioline rischia il linciaggio: la folla aspetta cose da mangiare. La disperazione del dopo-sisma fa emergere il peggio delle persone. Tranquilli impiegati che scatenano risse per un plaid, un giubbino. In qualche paese è la camorra a prendere in mano la situazione: assalta le colonne dei soccorsi, depreda e ammassa per il mercato nero che subito è rispuntato. Qualcuno regola con le pistole conti vecchi e rivalità di cosche. Di notte, nelle città-fantasma i carabinieri sparano sugli sciacalli attirati da migliaia di palazzi con le porte spalancate e le luci ancora accese. Pertini attacca governo e classe politica. Urla la vergogna che provano gli italiani a ministri incapaci e boriosi. Non si dimetterà nessuno. Il terremoto spazza via il clima di solidarietà nazionale tra Dc e Pci creatosi con il rapimento Moro. Berlinguer arriva pochi giorni dopo il 23 novembre e annuncia la seconda svolta di Salerno. Per settimane e settimane, in Campania e in Basilicata ci si è arrangiati. Le regole dello Stato sono state abrogate. Ognuno ha fatto quello che voleva, seguendo l’istinto della sopravvivenza, come su un’isola deserta. In un clima di oppressione del più forte. I sindaci, eroi generosi, lasciati soli: senza direttive, mezzi, uomini, senza norme. Un applauso accoglie Maurizio Valenzi a Napoli quando poche ore dopo la grande scossa riapre gli uffici del municipio e si rimette a lavoro. È una scena insolita, nuova dopo un disastro.

A Pagani tre settimane dopo viene ucciso il sindaco Marcello Torre. «Non mi lasciare solo», dice al telefono a chi scrive, la sera prima dell’attentato. È il segnale che la camorra lancia allo Stato che vuole ripristinare le regole, gestire appalti, avviare la rinascita. Anche la ricostruzione nell’Agro-sarnese-nocerino sarà costellata da delitti eccellenti. Il dopo-terremoto apre le porte alla follia delle Brigate Rosse. A Napoli, viene rapito l’assessore regionale Cirillo. I volantini e i messaggi di rivendicazione spunteranno sempre nei campi container allestiti dal commissario Giuseppe Zamberletti. È lui a guidare il viaggio dopo la lunga notte del 23 novembre. A far nascere la Protezione Civile in Italia.

Un sismologo giapponese arriva e si mette le mani nei capelli: tutti questi morti per una scossa simile? La commissione Grandi rischi non c’è ancora. Visto quello che è accaduto all’Aquila il 6 aprile del 2009 non sarebbe cambiato nulla. Ma ogni 23 novembre una domanda affligge chi ha raccontato da vicino quel disastro: quanti dei sepolti vivi si sarebbero potuti salvare se l’Italia fosse stato un Paese serio? Quante persone sarebbero oggi con noi se fossero stati cittadini e non clandestini della storia?

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