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MATERA – Sono trascorsi due lunghi anni, da quel maledetto 7 agosto 2019, quando un rogo scoppiato nel ghetto de “La Felandina” a Bernalda, soffocò la giovane vita della 28enne nigeriana Eris Petty Stone, che ha lasciato tre figli nel suo Paese d’origine.


Un dramma che ha scosso la coscienza collettiva, anche di chi contesta l’arrivo dei braccianti agricoli africani in Basilicata. Una tragedia che, ancora oggi, dopo due anni non ha un perché, ma soprattutto è orfana della verità essenziale: fu un incidente, o un omicidio premeditato? La prima ipotesi investigativa è stata sposata con forza dagli inquirenti della Polstato, che hanno sostanzialmente accantonato quella più grave del probabile omicidio.


Forse, però, questa giovane donna merita di più; soprattutto dopo le tante testimonianze interne al campo, che fin dal primo momento hanno gettato ombre pesanti su quanto accaduto. Petty aveva un nome di fantasia, probabilmente scelto da chi ne gestiva la vita da circa due anni, ovvero da quando nel 2017 aveva lasciato Padova approdando nell’inferno de La Felandina. In Veneto aveva provato ad emergere, forse per una vita pulita, facendo richiesta di permesso di soggiorno per motivi umanitari, come Omowunmi Bamidele Adenusi, nata a Lagos in Nigeria nel 1991.


Forse è questa la sua vera identità, ma non c’è stata mai certezza, perché le indagini non l’hanno appurato, impedendo anche le tante iniziative di sostegno e contatto con la famiglia d’origine, che non ha mai voluto la salma, poi tumulata nel cimitero di Bernalda, poiché in Nigeria il disonore della prostituzione è oggetto di micidiali riti voodoo. Allora, come si chiamava veramente Eris Petty Stone? È davvero stata uccisa, perché ha tentato di liberarsi dalle catene della tratta, riscattando il proprio destino? Chi e perché ha appiccato quel rogo? O è stato davvero un incidente, scaturito dalla presenza di bombole di Gpl, cartoni ed altro materiale infiammabile presente in quel capannone? Se, come risulterebbe dalle prime indagini, è stato un incidente, perché le fiamme non hanno causato altre vittime e feriti gravi, in un capannone di oltre 100 persone?

Dov’erano i connazionali di Petty alle 5 del mattino? Domande tutte ancora senza una risposta ufficiale da parte di chi indaga, mentre sullo sfondo restano testimonianze inquietanti sulla vita quotidiana in quel campo, dove i caporali africani decidevano chi doveva fare cosa, senza possibilità di liberarsi da quel giogo. Petty, così giovane e bella, era stata avviata certamente alla prostituzione, ma si voleva liberare.

Tanto che, testimoni che preferiscono l’anonimato, hanno riferito che la sera prima aveva avuto un litigio furibondo, forse con un potente caporale, a cui aveva comunicato la volontà di andare via verso Napoli, dove avrebbe raggiunto connazionali, probabilmente per “ripulirsi” da quel sudiciume. «L’esperienza nazionale, come quella del Foggiano, di Boreano e la Calabria, ci insegna che quasi sempre i roghi vengono appiccati nei ghetti, per far fuori qualche personaggio scomodo o inviso all’organizzazione interna -ci ha detto Pietro Simonetti, componente del Tavolo ministeriale anti caporalato- questo è ben noto alle autorità civili e religiose.

In quel campo c’era chi aveva delle paraboliche, per intercettare i canali televisivi esteri, io ho visto le foto; poi mi risulta ci fossero anche delle microcamere, per sorvegliare quanto accadeva. Tutti elementi sintomatici di un clima pesante, sul quale si sarebbe dovuto indagare, prima di addentrarsi nella pista dell’incidente. A La Felandina, insomma, c’è stata una morte sospetta, è stata aperta un’inchiesta, a cosa è approdata?

Non lo sappiamo ancora. -rimarca Simonetti- Ho provato ad aprire una pratica Inail come morte per incidente sul lavoro, c’erano le condizioni per farlo, ma pur interessando tutte le autorità, non siamo mai riusciti a risalire alla vera identità di questa donna».

Un dato confermato anche dal segretario generale della Cgil, Eustachio Nicoletti: «All’epoca ci muovemmo con il nazionale per capire, ma nè Ambasciata, nè Consolato ci riuscirono. Tanto che, per provocazione, organizzammo una manifestazione con lo slogan: “Senza nome”. L’identità non è un dettaglio, perché ci avrebbe consentito di avviare tante iniziative, magari anche con il supporto della famiglia».

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