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L'interno dell'Itrec a Rotondella (MT)

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Il lavoro della Sogin per riportare tutto in superficie. Serviranno 42 milioni per il deposito provvisorio

ROTONDELLA (MT) – Se non fosse per l’accurata identificazione, l’ingresso nell’area Enea della Trisaia di Rotondella avrebbe lo stesso impatto di un enorme parco verde di ben 100 ettari, dove trascorrere una giornata all’aria aperta.

Invece, al centro di quel dedalo di strade asfaltate tra immensi prati verdi e pini, c’è l’Itrec (Impianto di trattamento e rifabbricazione elementi di combustibile), una delle più impegnative eredità nucleari del Paese. Il Quotidiano lo ha visitato con una delegazione di amministratori locali, guidati dal parlamentare lucano Cosimo Latronico (DI). Ad accoglierci Ivo Velletrani, capo della Divisione regolatoria della Sogin, la società di Stato incaricata dello smantellamento nucleare nei quattro siti sensibili d’Italia (Trisaia, Casaccia, Saluggia e Bosco Marengo). Con lui Emanuele Fontani, il direttore degli impianti.

Il trattamento del ciclo del combustibile nucleare, fu ceduto dall’Enea alla Sogin nel 2003. Da allora, i circa sei ettari dell’Itrec sono di competenza esclusiva della società di gestione nazionale, che ha lo scopo di riportare il sito a prato verde.

La parola d’ordine all’Itrec è sicurezza, per la popolazione ed i lavoratori; lo testimonia il cordone in ferro spinato e l’alta rete che circonda il sito, ma anche le 120 telecamere di sorveglianza attive h24 e la “no fly zone” sull’intero perimetro. Un solo aereo sospetto che la violasse, sarebbe subito identificato e segnalato dalla Torre di controllo di Gioia del Colle, per l’abbattimento preventivo. Quindi, come ci spiegano, nulla è lasciato al caso, comprese le innumerevoli e meticolose procedure che abbiamo dovuto seguire per avvicinarci al cosiddetto monolite, un enorme sarcofago nucleare, che contiene tutti i prodotti della lavorazione del ciclo uranio-torio, oltre al “combustibile nobile”, realizzato nei 25 mesi di attività dell’impianto, che tra il 1975 e il 1978 doveva rappresentare l’avanguardia di un processo innovativo, quello dell’uranio-torio appunto, perché alternativo al classico uranio-plutonio. A questo scopo, importammo dagli Usa 84 barre dell’impianto Elk River nel Minnesota. Quello della Trisaia era un impianto chimico d’avanguardia, voluto nel 1960 dall’allora Cnen (Centro nazionale per l’energia nucleare); entrò in funzione solo nel 1973, con il riprocessamento di 20 delle 84 barre, che produssero liquidi ad alta e bassa densità nucleare e il combustibile allora innovativo, oggi praticamente inutile perché antieconomico anche per Paesi in via di sviluppo, come l’India. L’ennesimo rifiuto, che richiede, con gli altri, oltre 30 milioni di euro per essere messo in sicurezza, ovvero portato in superficie perché sia ispezionabile. Negli anni ‘60, infatti, stoccare i rifiuti nucleari significava chiuderli in un sarcofago di cemento armato ed interrarlo, attendendo la naturale cessazione della radioattività per interi secoli. Oggi la normativa di sicurezza impone l’emersione del monolite e lo stoccaggio di superficie. In quella enorme bara ci sono i puntali degli elementi nucleari trattati, i filtri e le resine di filtraggio della piscina nucleare ed i rifiuti delle attività di laboratorio. Tutti rifiuti prodotto in situ, nulla viene da fuori.

Sogin, con i suoi tecnici qualificati, tra cui giovani menti lucane illuminate, sta facendo emergere il monolite. Poi c’è la piscina nucleare, dove dal 1987, quando il referendum fermò il nucleare in Italia, sono immerse le 64 barre non processate dell’Elk River. Anche queste andranno reincapsulate e ricollocate a secco, di fianco al monolite “smontato”, nel sito provvisorio di superficie, insieme alle migliaia di fusti a media attività, già in sicurezza nei capannoni attigui. Dopo qualche battuta d’arresto, i lavori sono ripresi a pieno ritmo, tanto che si conta di ultimarli entro il 2022. Alla fine lo Stato italiano spenderà in totale circa 42 milioni di euro. Poi si passerà alla messa in sicurezza e smaltimento dell’impianto di riprocessamento, fino al prato verde. Un compito arduo, anche alla luce del fatto che in Italia non esiste ancora un Deposito unico delle scorie nucleari, ma solo una Carta predisposta dall’Ispra (l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), con centinaia di siti prescelti ed ancora non noti. La Basilicata nel 2003 ha lottato contro la realizzazione del Deposito unico a Terzo Cavone di Scanzano, ma si sa che nella Carta sono ancora indicati siti lucani.

Un dato è certo: senza il Deposito unico, i rifiuti rimarranno in superficie alla Trisaia, e tutto il lavoro di Sogin resterà “al palo”.

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