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I fusti in cemento armato contenente materiale radioattivo all’Itrec della Trisaia di Rotondella in provincia di Matera

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CHE fine ha fatto il deposito nazionale delle scorie nucleari? Causa della rivolta di un’intera regione, di volta in volta strombazzato da governanti ottimisti o tenuto sotto il tappeto da governanti timorosi, si è perso nell’oceano di nebbia che spesso avvolge e inghiotte i più titanici progetti nazionali di cui non resta che qualche promessa e qualche studio ad hoc.
Proprio nel 2020 ha compiuto dieci anni una di quelle promesse. Nel 2010 infatti fu affidato a Sogin il compito di localizzare, progettare e realizzare il Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. A dirlo non è un polemista in vena di rinfacciare alla società gli impegni non mantenuti: è stato lo stesso presidente di Sogin Spa, Luigi Perri, a ricordarlo il 16 giugno scorso alla Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti.
La Basilicata è legata a doppio filo a queste dieci candeline sulla torta del deposito nazionale. Che in realtà sono molte di più.
Nel 1987 l’Italia, con un referendum, dice di no al nucleare. La volontà popolare – sospinta dall’incidente di Chernobyl – viene ascoltata. Cosa fare del materiale che nel frattempo si è accumulato? Il Cipe nell’agosto del 1990 stabilisce la “messa in custodia” di tutti gli impianti atomici del Paese.

NAVICELLA RADIOTTIVA

La Commissione nazionale per la previsione e la prevenzione dei grandi rischi della Protezione civile avanza la sua proposta sulla sistemazione delle scorie. Pierluigi Bersani, nel 1999 ministro dell’Industria, invia alle Camere un documento che stabilisce le strategie in materia: basta con la “navicella” delle sostanze radioattive all’estero per farle processare: restano immagazzinate, secondo determinati standard di sicurezza, nei siti in cui sono state prodotte.
Nel 1999 dall’Enel sorge Sogin, cioè Società gestione impianti nucleari. A questo organismo dello Stato è affidato lo smantellamento (o decommissioning) prima delle quattro centrali nucleari italiane di Caorso (Pc), Trino (Vc), Garigliano (Ce) e Latina, più tardi degli impianti legati al ciclo del combustibile nucleare (fra cui c’è la lucana Itrec di Rotondella, Mt; l’Eurex di Saluggia, Vc; Ipu e Opec di Casaccia, Roma e Fn di Bosco Marengo, Al) e infine, con la legge di Bilancio 2018, del reattore Ispra-1, situato nel complesso del Joint Research Center di Ispra (Va).
Nel frattempo, il 13 novembre 2003, arriva nelle redazioni italiane un lancio di agenzia. Il testo: «(Ansa) – Roma, 13 Nov – Sorgerà in Basilicata, a Scanzano Jonico, il sito nazionale per le scorie nucleari. Il consiglio dei ministri ha infatti approvato un decreto con il quale si individua nella località lucana il luogo dove accogliere le scorie nucleari accumulate dalla dismissione delle centrali italiane e da attività di ricerca. Il sito dovrebbe accogliere scorie di 2/a e 3/a categoria, quelle cioè di alta e media durata. Il sito ha lo stesso quadro geologico di quello nazionale degli Usa ed è considerato il migliore per le sue caratteristiche di stabilità, secondo un’analisi del servizio geologico nazionale. Si tratta di trasportare nel sito circa 60mila metri cubi».
Il lancio dice “segue”, come di solito si usa nelle agenzie per indicare che arriveranno notizie integrative.

L’IMPOSIZIONE

Quello che segue è in realtà una valanga di posizioni contrarie, una rivolta spontanea, il potere centrale che sbatte il muso contro un’incoercibile volontà del popolo.
E sì che la notizia giunge il giorno dopo l’attentato di Nassiriya, in cui erano morte 50 persone di cui la metà italiani. Fra questi, il sottotenente Filippo Merlino, di Sant’Arcangelo, nel Potentino. Un malpensante potrebbe addirittura credere che la decisione sia stata presa nel momento di (presunta) minima attenzione dell’opinione pubblica.
Ma i sentimenti di dolore che interessano i lucani come tutti gli italiani – e che però non impediscono in quel giovedì 13 novembre 2003 a Mike Bongiorno con “Genius” e Carlo Conti con “I raccomandati” di fare i consueti ascolti – in Basilicata si mescolano alla rabbia per la decisione del governo che, si percepisce già dalle prime ore, nessuno gradisce.
Prima ancora che i politici parlino, che i sindacalisti organizzino, che gli opinionisti opinino, i cittadini sono in strada. Manifestazione serale davanti al Municipio di Scanzano Jonico, blocco della 106 Jonica, picchetti e presidi 24 ore su 24.
Il presidente Filippo Bubbico si schiera con i cittadini spiegando i motivi della scelta infelice e intempestiva del governo, retto da Silvio Berlusconi, e viene ribattezzato “il generale”. Piove da ogni dove la solidarietà, la partecipazione e la discesa in campo di ambientalisti, sindacalisti, politici ma anche enti istituzionali (ad esempio la Conferenza delle Regioni), tutti alleati contro il generale Carlo Jean, vertice della Sogin e suggeritore della scelta di Scanzano.
Insomma, scudi umani contro il decreto-panzer del Consiglio dei ministri. Che cederà il 20 novembre, decretando la marcia indietro e il mantenimento dello status quo. Tanto per ribadire il concetto, il 23 novembre – data altamente simbolica e tellurica per i lucani – la Basilicata attraversa le strade dell’area con la “marcia dei centomila”.
Un metodo ribadito dai lucani: la compattezza paga. Il governo, dopo aver capito che la decisione unilaterale invece non paga, decide di battere altre strade che comportino un minimo di condivisione.

Ma le scorie nucleari non le vuole nessuno. Intanto il governo ha dodici mesi di tempo per trovare una collocazione alternativa. E’ istituita formalmente una commissione tecnico-scientifica di 14 eminenti studiosi. Il ministro dell’Ambiente Altero Matteoli s’impegna: il deposito sarà operativo nel 2008.

L’IDEA DI BERLUSCONI

Sul tema cala il silenzio. La commissione non nasce, del deposito neanche l’ombra. Poi Berlusconi, nel 2010, annuncia di voler tornare al nucleare. Crea un’autorità apposita, ci mette a capo il senatore Pd e celeberrimo oncologo Umberto Veronesi. Ma il tutto si risolverà in poco più di una burla, senza una sede e nemmeno un decreto ufficiale di nomina.
Si diffonde una certa preoccupazione solo per un documento governativo, una mappa di 52 aree idonee a ospitare nuove centrali nucleari e, in più, le indicazioni per il deposito nazionale.
Il 14 febbraio del 2010, l’atto fondamentale, il decreto legislativo 31: la Sogin deve progettare e realizzare il deposito nazionale dopo aver stilato la Cnapi, Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee. E’ tutto scandito in maniera stringente: sette mesi per la carta, poi 120 giorni per un seminario scientifico e ancora vari periodi di trenta o sessanta giorni per i vari passaggi da Sogin al ministero e poi, infine, il risultato. Nessuno di questi passaggi viene rispettato.

En passant, un nuovo referendum nel 2011 spazza via ogni velleità di riapertura del tavolo atomico. Intanto, lo stesso anno, l’Unione europea invita caldamente l’Italia a risolvere il problema. L’idea peraltro non è più quella di un deposito di profondità, infilato in una sacca di salgemma come si voleva fare a Scanzano, ma un sito “tecnologico”, di superficie.

1500 POSTI

Nuova agenzia, questa volta del 12 dicembre 2014: «(Ansa) – Roma, 12 Dic – (…) “Il processo di localizzazione delle aree potenzialmente idonee ha preso il via il 4 giugno – ha spiegato il direttore deposito nazionale e parco tecnologico di Sogin, Fabio Chiaravalli – se tutte le tempistiche di legge saranno rispettate, l’apertura dovrebbe avvenire alla fine del 2024”. Insieme con il deposito sarà realizzato anche un Parco tecnologico, un centro dedicato ad attività di ricerca. Entro il 3 gennaio 2015 la Sogin consegnerà all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) una proposta di Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee per ospitare il deposito. In seguito verrà avviato un processo per coinvolgere la popolazione aprendo un processo di partecipazione e trasparenza».
Si parla anche dei soldi necessari e dei 1.500 posti di lavoro che «il centro genererà».
I verbi all’indicativo sarebbero stati meglio coniugati al condizionale: non è accaduto nulla di tutto ciò.
Si va avanti a furia di dichiarazioni e formule come “percorso partecipato” ma di risultati, anche pratici, non se ne vedono. La Cnapi pare ci sia, ma è un documento altamente riservato e nessuno lo ha mai divulgato. Aveva promesso di farlo entro il proprio mandato il ministro Carlo Calenda, agli inizi del 2018. Alla fine di marzo 2018 disse: «La settimana prossima». Non è avvenuto. La Cnapi dovrà diventare, chissà quando, Cnai, ossia Carta nazionale delle aree idonee (non più “potenzialmente”).

LA DATA DEL 2025

Ma l’iter è talmente lungo e – giustamente – complesso che risulta molto difficile condividere l’ottimismo del neoamministratore delegato di Sogin, Emanuele Fontani, che il 18 dicembre scorso, mentre a Rotondella parla dell’asportazione del “monolite” radioattivo, afferma: «Il deposito a oggi è previsto al 2025. Facendo le corse si fa ancora in tempo».
Sarà stato il lockdown o il fatto che nemmeno il dio Mercurio potrebbe cimentarsi in una corsa del genere, i vertici della Sogin sembra siano scesi a più miti pretese.
Il 30 giugno scorso hanno presentato all’Arera, Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente, il nuovo “Piano a vita intera”. La previsione è di riuscire a eliminare tutto ciò che resta del nucleare in Italia entro il 2036. Tra l’altro, l’Itrec di Rotondella sarà l’ultimo impianto a essere smantellato.
E i rifiuti? Il deposito resta un discorso a parte. Non esiste una data né certa né indicativa, a oggi. L’iter – fra pareri Ispra, seminari, passaggi ministeriali eccetera – è come detto lungo e tortuoso. I costi lievitano (Sergio Rizzo su Repubblica ha calcolato circa 8 miliardi di euro scaricati sulla bolletta elettrica degli italiani). E la torta rischia di riempirsi di molte altre candeline.

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