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Lo storico sul progetto della Magna Grecia: «Le Regioni non si cancellano, casomai si amministrano meglio»

POTENZA – La Magna Grecia è stata una realtà e la sua cultura permea ancora i territori che la costituivano. «Ma, in qualunque modo lo si voglia chiamare – dice lo storico Lucio Attorre (nella foto) – l’importante è che siano i popoli, seguendo i propri reali bisogni, a decidere delle proprie sorti».
Attorre – ricercatore all’Unibas, autore ed editore, socio della Deputazione di storia patria – non si sveste da storico dando la preminenza al bene pubblico rispetto alle questioni accademiche, tutt’altro: attinge alla cultura per spiegare l’importanza del progetto di referendum che il comitato “Taranto Futura” sta portando avanti perché la Città dei Due Mari passi, insieme alla sua provincia, con la Basilicata.
Professore, che accadrebbe con il ritorno della Magna Grecia?
«Intanto, voglio esprimere la mia opinione: nel rispetto dei valori di cui ci riempiamo la bocca ma di cui spesso ci dimentichiamo, la sovranità risiede nel popolo. Per cui, secondo me, dovrebbe essere il principio illuministico del benessere del popolo ad alimentare l’agire politico. Tutti gli altri elementi, usati per rafforzare il principio di natura culturale – che si chiami Antica Lucania o Magna Grecia – sono nomi, e il nominalismo fa da coperchio ma non può nascondere la vera sostanza: il popolo utilitaristicamente considerato per il suo benessere. E’ giusto rivendicare che il popolo stia bene scegliendosi autonomamente la forma di responsabilità di tipo amministrativo che vuole. Non credo sia un delitto o una colpa».
Ma cos’è, oggi, la Magna Grecia?
«La realtà storica si trasforma, e sempre di più. Alcune città d’Italia, e del Sud, fagocitano altri centri viciniori, al punto che si parla di città metropolitane, che crescono a vista d’occhio. Ad esempio, è quello che sta accadendo a Bari. E’ difficile parlare, in maniera distinta, di Bari e Modugno o di Bari e Bitonto, che oramai sono quasi totalmente integrate. Una città che sia diventata corposa, e quindi difficilmente gestibile, comporta problemi che rendono difficile la gestione di un territorio più ampio. Questo sta avvenendo in Puglia: cresce troppo Bari, com’è accaduto a Napoli, grande testa di un piccolo regno, penalizzando realtà periferiche. Napoli, attraendo e assorbendo finanziamenti pubblici, fa arrivare le briciole alla periferia, che è legittimata a lamentarsi. Non lo ritengo pretestuoso».
Le considera in altre parole rivendicazioni sacrosante che prescindono da altri aspetti.
«Anziché parlare e parlare inutilmente, si dica ad alcune realtà: cosa volete fare? E poi, elasticamente, si aggiustino le leggi in base alle nuove esigenze».
Non sembra che in Italia, storicamente, sia andata così.
«In Italia ci sono contorcimenti che finiscono con il creare situazione di anelasticità. Neanche mentalmente si riesce ad andare al di là delle strozzature così causate.
Ma insomma, esiste un legame fra Magna Grecia e territori attuali?
«E’ una questione di struttura e sovrastruttura: la seconda non è staccata dalla prima ma parte integrante. Se parliamo di Magna Grecia, comprendiamo anche l’Antica Lucania, Paestum, Velia, si può tranquillamente estendere. L’importante – ripeto – che corrisponda il nome al benessere pratico della collettivtà».
C’è un lascito culturale? Esiste, nella cultura di oggi, una traccia della Magna Grecia?
«La storia prosegue, a volte in maniera carsica. Una realtà sedimentata non può essere cancellata. E’ un factum. Un dato acquisito e ineliminabile. Questa sorta di trasferimento a ritroso è una cosa importante. Va detto che, a mio parere, il passato non può sostituire le considerazioni del presente. La storia ha un carattere progressivo. Tutto si modifica. La scuola modifica: basti vedere quello che accade, con tanta gente che arriva da altri paesi e porta con sé altre storie, altre sensibilità, altre religiosità. Non do giudizi, fotografo solo la situazione. Così la nostra dimensione italiana è già altra cosa, magari non integralmente stravolta, ma non si può non verificare che sia cambiata».
Che ruolo vede per la Basilicata nel Sud?
«Uno degli intellettuali più importanti che abbiamo avuto, Bernardo Tanucci, il più grande primo ministro dei Borboni, professore di Economia alla Normale di Pisa, ebbe a dire: perché il regno sia davvero grande, la capitale deve passare da Napoli a Melfi. E’ la stessa intuizione che hanno avuto in Brasile, portando la capitale da San Paolo a Brasilia. Bisogna assolutamente rilanciare le anime che sono collocate al centro del territorio. Per dirne un’altra, sotto Giuseppe Bonaparte, a Napoli si decise che, perché la Basilicata fosse ben amministrata, il capoluogo dovesse passare da Matera a Potenza: Matera era troppo lontana. E così fu».
Per lei la Basilicata può quindi aspirare ad avere un ruolo centrale nelle politiche che immaginino il futuro del Mezzogiorno.
«Assolutamente sì. Ma non nella presunzione di conquista, non siamo spinti alla formazione di nessun impero. (ride) Matera è al centro del turismo, ma – per dire – anche Aliano sta acquisendo un ruolo importante. Tutta la Basilicata, nella sua interezza, potrebbe avere una funzione fondamentale. Sono fortunato dell’amicizia di un generale dei carabinieri che, mai venuto prima in Basilicata, una volta arrivato mi disse: se non è la più bella, è certamente fra le regioni più belle d’Italia».
La classe dirigente è pronta a darle questo ruolo?
«La classe dirigente non segue le rivendicazioni del popolo ma pretende di sostituirsi alla gente».
E allora chi potrebbe farglielo giocare?
«Parlerei di quella che li filosofo Fichte chiamava: la missione del dotto. Ognuno di noi – storici, giornalisti, intellettuali – svolge una funzione fondamentale in questo senso».
Il potere allora è cieco?
«La classe dirigente, negli ultimi tempi, lascia molto a desiderare, senza voler offendere nessuno. I padri costituenti avevano spessore culturale notevole. Una cultura enorme, che sapevano utilizzare al di là delle esperienze personali. L’attuale lascia molto a desiderare. Anche oggi ognuno, ovviamente svolge una funzione preziosa. Ma svolgerla in maniera più cosciente sarebbe meglio».
Ad esempio?
«Sto leggendo “L’inchiesta agraria Jacini”, di Alberto Caracciolo. E proprio in questi giorni pensavo a Cavour, che aveva avuto l’intelligenza di istituire un ministero dell’Agricoltura. E poi, per tutti gli anni Settanta e Ottanta, abbiamo assistito all’assurda polemica di chi diceva: leviamolo, questo ministero, che dà solo fastidio. Questa è pochezza. E anche oggi sta accadendo così. Nessuno sta parlando di questo progetto ella Magna Grecia. O c’è silenzio da questa parte, o magari la rabbia da parte della dirigenza pugliese: ma invece c’è di mezzo il bisogno della gente comune».
C’erano anche altri progetti, per esempio quello della Grande Lucania nel Cilento e Vallo di Diano.
«Ho molti amici a Polla, Sala Consilina, San Pietro al Tanagro. Mi hanno chiamato, tempo fa, per dire: avevamo avviato un discorso e poi il silenzio totale. Io dico: ci vuole tanto a interloquire con altre realtà? Lì è Napoli ad assorbire le rivenienze finanziarie nei problemi della macrocittà».
Nel suo ragionamento, quel silenzio è una precisa volontà di non ascoltare i cittadini.
«Al politico non compete il diritto di decidere le sorti del popolo che amministra, ma l’ordinamento di pensieri e bisogni. A questo si dovrebbe pensare, da parte della politica, anziché cercare di distruggere una regione come la Basilicata, e parlo degli insulsi piani di cancellare la regione, i cui autori sono nascosti dietro le insegne di Fondazioni. Le Regioni non si cancellano ma, casomai, si amministrano meglio. E’ fondamentale trovare una perfetta aderenza fra i bisogni della base, l’orientamento amministrativo e l’ingegneria costituzionaìle. Ma, se uno parla, diventa subito un nemico».
In definitiva: a lei l’idea della Basilicata allargata con il modello “Magna Grecia” sembra piacere molto.
«Sì. Però, ripeto, la storia fa sempre da sostegno indispensabile, ma sono i bisogni reali del momento ad avere la preminenza. Certo, non è che si possa allargare una regione ogni cinque anni. Ma anche la storia non cambia così rapidamente. Purché ci sia simmetrica adesione: la gente ha il diritto a stare bene».

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