X
<
>

La colonna vertebrale di “Giuliana” come appariva durante gli scavi del 2006 (foto Renato Sartini)

Condividi:
10 minuti per la lettura

La balenottera scoperta 10 anni fa e custodita nelle casse del Museo archeologico di Matera. Tra le pieghe della ricerca dei paleontologi: così quei resti possono fare luce sui fenomeni tellurici

MATERA – «Quei fossili sono un bene comune dei materani, dei lucani e degli italiani: bisogna aprire le casse che li contengono, studiarli e renderli fruibili ai visitatori di tutto il mondo. Ma bisogna farlo entro il 2019»: suona quasi come un sogno l’appello di Renato Sartini, regista del documentario che racconta l’affascinante mistero della balenottera del Pleistocene scoperta 10 anni fa in Basilicata. «L’obiettivo per l’anno in cui Matera sarà la capitale europea della cultura dev’essere uno: restaurare e musealizzare i resti di “Giuliana”». Sì, ma come? E con quali risorse? Secondo il giornalista scientifico lucano l’ideale sarebbe lanciare un crowdfunding, una campagna di raccolta fondi sul web che porrebbe «Matera all’avanguardia», oltre a dimostrare che «un intero territorio abbraccia la balenottera facendola diventare un simbolo» anche oltre il 2019. «Basta soldi pubblici – incalza Sartini – il territorio per autopromuoversi deve muoversi». Non è un gioco di parole, tanto più se si pensa che quella data-feticcio è dietro l’angolo e attingere a fondi pubblici potrebbe risultare più difficile di quanto si pensi.

Per rendere i reperti fruibili servono circa 100mila euro: la Soprintendenza ne avrebbe già richiesti 50mila al MiBact

Esiste anche una cifra indicativa sul costo dell’intervento: si aggira attorno ai 100mila euro. E pare che la Soprintendenza della Basilicata ne abbia richiesti 50mila al ministero entro il 2019: forse la tempistica dilatata potrebbe far bypassare l’attesissima scadenza, serve invece una certa immediatezza e dunque persino una sponsorizzazione – si pensi all’intervento al Colosseo – potrebbe accelerare l’operazione. Un sogno, appunto?
Forse, ma Giuliana ha tutti i numeri per meritare tanto: lunga più di 25 metri, misura stimata grazie al ritrovamento del cranio, largo da zigomo a zigomo ben 2,88 metri, “Giuliana”, così chiamata per via del lago artificiale di San Giuliano in cui fu scoperta l’8 agosto del 2006 – la diga che sbarra il fiume Bradano a pochi chilometri dalla città di Matera – non è stata ancora studiata. E giace ancora, dimenticata da 10 anni, nelle casse in cui fu conservata. Questa storia, sconosciuta e dimenticata, viene consegnata all’opinione pubblica proprio grazie al documentario di divulgazione scientifica scritto e diretto da Sartini “Giallo ocra – Il mistero del fossile di Matera”, presentato in prima nazionale l’8 ottobre in occasione del trentennale di Futuro Remoto, il festival delle scienze di Napoli, racconta tutti i passaggi di questa vicenda intrecciandoli con importanti fatti scientifici attraverso le voci di importanti scienziati che hanno partecipato al recupero del fossile.
Non ultimo il profilo legato, come vedremo, ai recenti episodi sismici, dal 24 agosto nel Centro Italia al terremoto dell’Irpinia nel 1980 passando per lo sciame sismico del Pollino degli ultimi anni: la collocazione dei fossili proprio nell’area interessata da ripetuti movimenti tellurici potrebbe restituire una “mappatura” dell’area agli studiosi della materia.
Giuliana è «una scoperta eccezionale», come sottolinea nel corso del documentario uno dei protagonisti, Walter Landini, ordinario di paleontologia dell’Università di Pisa, che insieme ai paleontologi Angelo Varola dell’Università del Salento e Giovanni Bianucci dell’Università di Pisa s’è occupato del cetaceo fin da quell’estate in cui fu ritrovata da Vincenzo Ventricelli, un anziano agricoltore del posto.
Ecco un’anticipazione dei 5 punti nodali del documentario di Sartini (GUARDA IL TRAILER).

1. Cos’è stato trovato della balenottera di San Giuliano?
«Della balenottera di San Giuliano sono ritrovate 12 vertebre toraciche con un diametro superiore ai 20 centimetri» spiega Bianucci, «diverse costole, di cui una lunga oltre 3 metri. Ma anche la pinna pettorale costituita da scapola, omero, radio, ulna e diverse falangi. Del cranio, che è la parte scientificamente più importante dello scheletro, è stata ritrovata la porzione posteriore, cioè quella parte che includeva il cervello, e una parte del rostro: mandibola e mascella». Un altro elemento che è stato ritrovato nel 2008 e che rappresenta una rarità in paleontologia è la bulla timpanica, un elemento molto importante che ha da subito permesso di attribuire questo scheletro al genere balenottera.
«Il cranio è molto importante» sottolinea Varola, l’unico dei tre paleontologi ad aver partecipato anche al recupero del cranio nel 2011. «Per comprendere il tipo di cetaceo è stato importante trovare l’occipite, la parte dei mascellari e pre mascellari e le ossa zigomatiche. Ma soprattutto le bulle timpaniche. Queste si trovano anatomicamente sotto al cranio e sono difficili da trovare perché sono tenute attaccate al cranio da tessuti molli. Motivo per il quale, dopo un certo periodo dalla morte dell’individuo si staccano, ed essendo di struttura molto pesante, un tessuto di tipo pacheostotico, tendono a rotolare verso il basso e ad allontanarsi dallo scheletro».
Individuato nel corso dello scavo del 2008 ma recuperato soltanto nel 2011, il cranio, al fine della sua conservazione, è stato cosparso di materiali particolari per preservarlo dagli agenti atmosferici. È stato incamiciato con delle resine speciali e del gesso, così come si fa per bloccare una frattura. Tutto quello che è stato utilizzato è materiale reversibile, che potrà poi essere asportato quando verrà studiato il fossile, senza danneggiare le parti ossee. Dopo di ciò è stato chiuso in casse di legno riempite di materiali resistenti come argilla espansa e poliuretano, imbragato e trasportato nell’area industriale di Matera, presso i magazzini della Soprintendenza. Oggi si trovano nel Museo Archeologico Nazionale “Domenico Ridola” della città. E non sono state mai aperte…

2. Cosa ci racconta “Giuliana” del nostro pianeta?
Dalle sole dimensioni di alcune parti, la balenottera, nonostante non sia ancora stata studiata a fondo, ci dà importanti informazioni sull’evoluzione di questi cetacei e sui cambiamenti climatici.
«È il più grande fossile di balenottera ritrovata al mondo risalente al Calabriano, cioè a quell’arco di tempo dell’epoca del Pleistocene compreso tra 1.8 milioni e 781mila anni fa. Forse la più grande ad aver mai nuotato nel Mediterraneo» spiega nel documentario Bianucci. «E poiché quanto più grande è la massa di un corpo tanto più lenta è la sua perdita di calore in acque fredde, il ritrovamento di questo fossile confermerebbe la teoria secondo la quale l’aumento delle dimensioni di questi cetacei sarebbe, dal punto di vista evolutivo, una risposta alle glaciazioni registrate sulla Terra negli ultimi 2 milioni di anni». Che rappresenta un importante tassello per comprendere meglio anche l’evoluzione dei cambiamenti climatici.

Il regista Sartini: «Una raccolta fondi sul web per valorizzare un simbolo del territorio, anche oltre il 2019». Ma il tempo stringe

3. Qual è il rapporto tra il recente sisma del Centro Italia e la balenottera?
Altre importanti informazioni ci vengono da una parziale ricostruzione, da approfondire aprendo le casse in cui è conservata, dell’antico ambiente in cui è morta. Che ci raccontano anche dei movimenti della crosta terrestre. Gli stessi che sono alla base dei terremoti lungo tutta la catena appenninica italiana, la spina dorsale di montagne che segna il centro di quasi tutta la penisola.
«La presenza di flora e di fauna fossile presenti nel terreno scavato che avvolgevano la balenottera è risultata significativa per la definizione dell’antico ambiente in cui è morta, e per la ricostruzione del fondale in cui si è adagiata e che è diventato il suo sarcofago d’argilla» spiega Landini. «In particolare abbiamo trovato pesci lanterna, che vivono a qualche centinaio di metri di profondità, zoopycus, che sono resti di organismi limivori che si nutrono di detrito organico sui fondali, anch’essi che vivono ad alcune centinaia di metri. Ma anche molluschi che vivono, invece, in acque aperte, oceaniche, fresche, e sono gli pteropodi. Tutto questo indica un ambiente complessivo intorno ai 500, 600 metri di profondità. Un altro elemento estremamente utile per ricostruire l’intera forma dell’antico bacino in cui è morta è risultato dalla presenza di posidonie: sono resti d’origine vegetali che vivono tra zero e 50, 60 metri di profondità. Questa grande presenza può essere spiegata con l’esistenza di un fondale molto molto ripido, quindi che scendeva quasi in verticale dalla parte emersa fino all’ambiente in cui abbiamo trovato il reperto». Che quindi si trovava in un fondale profondo, cosa che spiega la presenza di argille che si formano per pressioni elevate. Ma cos’è successo allora? E come ha fatto ad arrivare una balenottera sulle colline della Basilicata, a 100 metri sul livello del mare e a circa 40 chilometri dalla costa del Mar Jonio? È stato a causa di un’antico maremoto con relativo tsunami, o per un passato global warming in grado di sciogliere le riserve d’acqua congelate nelle calotte polari o sui ghiacciai alzando il livello del mare fino a 100 metri? Il documentario spiega proprio questo aspetto al profano che, abituato a sentir parlare sempre di climate change e scioglimenti, non riesce a pensare a una causa diversa. Perché la soluzione del mistero e “sotto i piedi di tutti”. Ed è legata a stretto giro con il recente terremoto che ha colpito il Centro Italia. La balenottera di San Giuliano, infatti, è un “regalo” di quelle stesse forze che il 24 agosto hanno scosso il centro Italia con un sisma di grado 6 della scala Richter. Distruggendo i paesini di Accumuli, Amatrice e Arquata del Tronto. Causando quasi 300 morti e mettendo fuori uso, come ha comunicato la Protezione Civile italiana, 1486 edifici e rendendone temporaneamente o parzialmente inagibili altri 713. Sono state proprio loro in milioni di anni a sollevare di circa 600 metri il fondale su cui si adagiò la balenottera. Diventata, poi, la sua tomba.

4. Cos’è la Fossa Bradanica?
Per scoprire questo incredibile sollevamento di un territorio basta andare a Miglionico, un paese a circa 500 metri d’altitudine. Da dove si vede oltre che la piana dove si trova la diga di San Giuliano la città di Matera. Ai tempi della balenottera tutto il territorio che da questo paesino si vede, che fa parte della cosiddetta Fossa Bradanica, era completamente sommerso. Ma a quelle altezze in mare non ci è mai arrivato. In molti credono di sì: chi credendo alla storia dell’Arca di Noè, chi pensando a uno tsunami o allo scioglimento delle calotte polari e dei ghiacciai. Pochi, invece, riescono a immaginare che immense forze interne alla Terra, in milioni di anni, siano state capaci di sollevare al di sopra delle acque un vasto fondale marino profondo centinaia di metri: quello su quale si depositò la balenottera dopo la sua morte. «I resti della balena sono stati ritrovati nella valle del fiume Bardano a circa 100 metri sul livello del mare. Ma come ci sono finiti lassù, e proprio in quei sedimenti?» racconta Federico Boenzi, già Ordinario di Geomorfologia Università degli Studi di Bari. Uno dei protagonisti del documentario. «L’area appenninica, in particolare l’Appennino Meridionale, può essere distinta, dal punto di vista della struttura geologica, in tre parti: l’Appennino propriamente detto, l’Avanfossa Bradanica, e poi l’Avanpaese pugliese. La balena è stata trovata esattamente nei sedimenti della cosiddetta Avanfossa Bradanica. Quest’ultima è una conseguenza del movimento delle placche terrestri. In particolare di quello che è il movimento geo dinamico della placca Apula che, muovendosi verso ovest, s’infila (subduzione) sotto la placca europea corrugandola e spingendola verso l’alto. Questa corrugazione sono gli Appennini, la spina dorsale della penisola italiana. La spinta è, invece, la causa dei terremoti che scuotono questa catena montuosa, quindi, praticamente, tutta l’Italia. Quando la balenottera è morta l’attuale Puglia era un arcipelago di isolette e c’era un ampio canale di mare profondo anche 600 metri che univa quello che oggi è il Mar Jonio con il Mare Adriatico. È in questa situazione che la balenottera si è depositata sul fondale. In centinaia di migliaia di anni, poi, questo fondale è stato sollevato al di sopra del livello del mare dalle dinamiche spiegate prima, mentre i corsi dei fiumi “tagliavano” i depositi accumulatisi nel tempo fino ad arrivare al fondale dove si depositò la balenottera. Dove oggi l’abbiamo trovata».

5. Che fine ha fatto la balenottera Giuliana?
Per definire la specie, quindi per poter dire se si tratta di una specie ancora vivente o di una specie estinta, si dovrebbe studiare il cranio. Ma Giuliana è ancora chiusa nelle casse in cui fu conservata negli interventi di recupero del 2008 e del 2011. «La speranza – sospira Sartini – è che per l’evento di Matera capitale della cultura europea 2019 venga finalmente studiata ed esposta al pubblico. Affinché tutto il mondo possa andarla a visitare. In fondo al mare».

 

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE