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Le mura perimetrali della città antica di Herakleia-Policoro in mezzo a due case: gli scavi sono fermi da anni

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Musei al palo, scavi bloccati: così si spreca un’occasione. Intervista all’archeologa Mary Padula: «Diversi siti della costa jonica lucana sono stati soltanto saggiati. Non solo Policoro e Nova Siri: potenziali itinerari anche a Scanzano»

UN patrimonio sotto di noi. Destinato a rimanere lì, se qualcosa non cambia. Il sottosuolo della Basilicata è zeppo di testimonianze di antiche civiltà. Reperti preziosi, che lo sguardo corto della politica costringe a non venire alla luce e a non trasformarsi nella risorsa culturale che potrebbero diventare.
A dirlo Mary Padula, oggi giornalista ma archeologa di formazione, per anni attiva sul campo anche accanto al nome più importante del settore, quel Dinu Adamesteanu che ha dedicato la vita alla valorizzazione del passato lucano.
E’ vero che nel Metapontino esiste un significativo numero di contesti archeologici mai portati alla luce oppure non valorizzati? Dove sono e cosa sono?
«Sì, esistono contesti archeologici mai scavati per mancanza di fondi, non posso comunicare pubblicamente i luoghi perché potrebbero essere attenzionati da parte dei così detti “tombaroli”, considerata la portata di oggetti di pregio portati alla luce dalla Soprintendenza e gruppi di ricerca Universitari nel corso degli anni, custoditi presso il Museo Nazionale archeologico della Siritide di Policoro e di Metaponto, appartenenti a fasi storiche che vanno dal Neolitico al tardo medioevo. Inoltre, nei musei sono presenti lotti di materiali (nei magazzini) mai lavati, restaurati e studiati che, verosimilmente, potrebbero essere soggetti a deterioramento. Anche in altri contesti territoriali (come la valle del Sauro) è accaduto che, in prossimità del tracciato di oleodotti, sono stati indiziati scavi non sostenuti economicamente».
Spieghiamolo meglio a chi non è esperto del settore.
«Per meglio spiegarmi, quando si eseguono dei lavori d’infrastrutturazione pubblica tutto ciò che esce fuori dal perimetro dell’area di lavoro non viene scavato, quindi le indagini sono incomplete. Diversi siti della costa Jonica lucana sono stati saggiati ma non scavati. Accade di sovente, all’archeologo, di passeggiare su pianori e strade dalle quali emergono presenze di materiali, seppur in frammenti, archeologici».
E’ vero che esistono anche “itinerari sconosciuti”?
«Tutta la Lucania presenta ricchezze archeologiche nel suo sottosuolo che sono certamente una potenziale risorsa per il nostro Paese non solo dal punto di vista puramente archeologico, ma anche per il turismo culturale».
E’ possibile fare qualche esempio?
«Tra gli ultimi scavi in corso in questo territorio, di cui sono al corrente, posso citare quelli condotti dall’Università bretone di Rennes 2, operativi oramai da 17 anni, che sulla collina dell’Incoronata hanno messo in luce un importante luogo di produzione ceramica con una fornace del VII sec. a.C., un contesto archeologico fondamentale perché i reperti rinvenuti in questo contesto testimoniano la presenza di una comunità mista di Greci e indigeni. Gli artigiani hanno lavorato insieme, scambiandosi reciprocamente “savoir-faire” (conoscenze artistiche e tecnologie), ancor prima della fondazione della colonia di Metaponto. Inoltre, sarebbe opportuno valorizzare anche gli itinerari delle “cantine grotte” nel territorio di Tursi, utilizzate in epoca moderna per la lavorazione delle uve e conservazione del vino (contesti di grande importanza dal punto di vista antropologico). La stessa Scanzano Jonica, nota alla stampa per la cronaca, presenta dei potenziali itinerari turistici che ricoprono un arco temporale vasto, dalla colonizzazione dei greci al periodo della “Riforma agraria”. Ad esempio, molti archeologi hanno iniziato da pioneri, oltre 20 anni fa a promuovere itinerari culturali in periodi in cui gli spazi di approdo ai centri storici erano quasi inesistenti».
Altri casi?
«Si potrebbe parlare, altresì, della stazione termale di “Cugno dei Vagni” a Nova Siri, risulta poco accessibile, benché presenti un’eccezionale tridimensionalità perché il sito conserva muri. Mancano gli itinerari di valorizzazione dei palazzi storici presenti nel metapontino. Policoro dispone di altri itinerari potenzialmente visitabili che potrebbero essere messi a sistema con il Museo e generare maggiore attrattività’: le mura di Eraclea incastonate e visibili tra due abitazioni non segnalate, la pista ciclabile antistante il Museo, il Castello di Policoro, importante dal punto di vista storico, che ha visto la presenza, per ben due volte, di Federico II di Svevia».
Ci può parlare in breve di una struttura religiosa monumentale scoperta a Policoro e coperta dal “geotessuto”? Cosa sorge oggi sugli scavi?
«Sì, a partire dal 1995 l’ Università di Perugia con a capo il professor Giampiero Pianu, allora associato di Archeologia della Magna Grecia, ha condotto alcune campagne di scavo sulla collina del Castello di Policoro, alle quali ho partecipato attivamente, mettendo in luce una struttura religiosa di ottima portata, in buona sostanza, sono emersi dei blocchi riutilizzati per la costruzione del Castello, ex monastero Basiliano, in periodi storici successivi. Dalle unità stratigrafiche sono emersi materiali ceramici a vernice nera e non solo, custoditi presso i magazzini del Museo Nazionale della Siritide di Policoro. Purtroppo, per mancanza di fondi lo scavo, profondo più di tre metri, è stato ricoperto con il geotessuto, quest’ultimo serve proprio per proteggere le strutture da intemperie e vegetazione spontanea mentre sono in attesa di restauri e valorizzazioni che un giorno potrebbero renderli interamente e più facilmente fruibili al pubblico. Quel giorno, per il sito in questione non è ancora arrivato».
Cosa si vede ora?
«Oggi, sugli scavi, sorge un giardino».
Qual è il motivo per cui queste meraviglie sono nascoste alla vista del mondo?
«Già a partire dal ‘93, nell’immaginario collettivo, il Metapontino è stato associato, assorbito, da Matera. In realtà, non è stata messa in campo alcuna politica unitaria per quanto concerne la valorizzazione dei siti, come se, verosimilmente, ognuno guardasse al proprio orticello. Inoltre, il Metapontino non è stato mai sede di uffici pubblici regionali, né di sedi universitarie. Vi è stato anche un uso “illogico” dei finanziamenti».
Cioè?
«Tanto per intenderci: alcuni progetti enogastronomici, di animazione culturale sono, alle volte, finiti nel dimenticatoio e non mi riferisco solo a Senise. Nel settore turistico posso dire che, anni addietro, escluse le presenze nei villaggi turistici del Metapontino, i centri urbani sono stati poco attenzionati da coloro i quali avrebbero dovuto promuoverli».
Esiste anche un’emergenza-musei. Può parlarcene citando dati?
«Partendo da alcuni dati forniti dal ministero dei Beni, delle Attività Culturali e del Turismo, anno 2017, si può analizzare il numero dei visitatori per aree archeologiche in ogni regione. La Basilicata occupa il quartultimo posto nella classifica nazionale. Il risultato appare piuttosto scoraggiante in rapporto alle ricchezze, soprattutto archeologiche, di cui dispone la nostra terra, in particolare nel Metapontino (terra di Magna Grecia che accolse, tra gli altri, il filosofo e matematico Pitagora) i cui reperti sono conservati presso il Museo Archeologico Nazionale di Metaponto e il Museo Nazionale della Siritide di Policoro. E’ interessante focalizzarsi su quest’ultimo, considerato uno dei più importanti del centro-sud, per il quale però il numero di visitatori e di incassi (soli 11.201,50 euro per tutto il 2017) non fa certo sorridere».
Perché questi dati sconfortanti, a suo parere?
«Potrebbe dipendere da un turismo “mordi e fuggi”, o dalle domeniche gratuite nei Musei (aspetto che farebbe scendere gli incassi ma non i visitatori)? C’è un dato che fa riflettere: le aree archeologiche statali della provincia di Matera hanno superato, con 101.882,00 euro di incasso, quelle di Potenza, con 95.975,75 euro. Tenuto conto dei luoghi strategicamente collegati attraverso la statale 106 Jonica, ci si chiede se non sia opportuno potenziare l’area del Metapontino con contributi economici ed eventi culturali significativi tesi alla crescita di un territorio ricco di risorse. Ma gli incassi per ogni singolo museo non bastano per sopperire alle mille esigenze. Alle volte, il personale mette mani nelle proprie tasche anche per fare un buffet in alcuni eventi».
E cosa si dovrebbe fare?
«Forse sarebbe opportuno pensare a nuovi modelli di gestione perché i vecchi non hanno prodotto alcun beneficio economico. I musei non sono presenziati da archeologi a livello organico, eccetto gli ispettori di zona che comunque sono responsabili di più strutture, per cui la struttura deve rivolgersi a professionisti esterni. Difatti dagli ultimi dati emersi, in assenza di nuove assunzioni agli uffici preposti alle attività di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale (sommando le cessazioni ritenute stando alle attuali vacanze presenti nell’organico), si stima un valore complessivo di scoperture pari a 11.009 unità di personale, con conseguente minore efficienza ed efficacia nella gestione e funzionamento del ministero. Nel frattempo però, questo problema spesso viene in qualche maniera ovviato attraverso bandi e progetti Pon che richiedono sempre professionisti di beni culturali con il massimo dei titoli di studio ed esperienza lavorativa nel settore ma offrendo loro lavori non subordinati (a partita Iva) e lavori a dir poco sottopagati. Questo quando, aihmé, non ci si rivolge direttamente alle associazioni di volontari. Parlando invece del settore relativo più specificamente all’archeologia preventiva (ossia, che ha lo scopo di conciliare l’esigenza di tutela del patrimonio archeologico con le necessità operative delle attività che comportano lavori di scavo, ndr) in Italia, non appartenendo la figura dell’archeologo a nessun albo e non avendo nessun tipo di tutela professionale, è quasi sempre in balia alle proposte/decisioni legate alla committenza, costituita quasi sempre alle ditte di costruzioni di opere pubbliche. Ciò significa che la retribuzione non è quasi mai conforme al livello di preparazione o professionalità richiesta all’archeologo (perché non esiste un regolamento dei “minimi”), ma il professionista viene pagato in base agli appalti, che spesso si riducono con gare a ribasso».
Sono temi portati dalle autorità competenti all’attenzione di amministratori e politici? E cosa hanno fatto questi ultimi finora per risolvere il problema?
«Nulla, se siamo in questo stato… Non è stata mai programmata una concertazione tra enti. Molti politici hanno venduto questi temi solo per fare campagne elettorali».
Non le sembra un paradosso che tutto ciò avvenga nell’anno in cui Matera è Capitale europea della cultura e in Basilicata arrivano milioni di euro destinati ad attività culturali?
«A Plovdiv stanno usando i fondi ricevuti per la nomina a Capitale della cultura Europea per la valorizzazione anche del patrimonio culturale-archeologico della città e non solo: anche a livello infrastrutturale. Molti fondi si utilizzano per eventi culturali o pseudo tali, fini a se stessi, non proiettati verso il futuro. Dopo la nomina cosa resta? E poi, quanti luoghi culturali sono accessibili ai disabili?».
E’ vero che lei ha coltivato la passione per l’archeologia fin da piccola, e che già allora frequentava il grande archeologo Dinu Adamesteanu? Ci parla del vostro rapporto e dell’importanza che ha avuto lo studioso sulla cultura archeologica e museale in Basilicata?
«Sì, ho avuto modo di conoscere e frequentare, quando ho potuto, il professore Adamesteanu. Una persona splendida, disponibile, è sempre riuscito a spiegarmi concetti complicati in maniera semplice. Spesso ho avuto modo d’incontrare, presso la sua dimora di campagna, anche alcuni archeologi, studiosi. Restavo immobile e affascinata al contempo davanti la sua libreria. Tutti a Policoro hanno un buon ricordo di lui, dal barbiere al macellaio. Lui era davvero un grande divulgatore di cultura. Attualmente è seppellito nel cimitero della città d’Ercole, mi fermo davanti alla sua tomba quando mi reco lì, su quest’ultima c’è scritto: “Dacoromeno di nascita, cittadino del mondo per vocazione, lucano per scelta”. Dopo le superiori mi sono iscritta al corso di Laurea in lettere antiche, laureata con una tesi sperimentale in Archeologia Cristiana sul Santuario di Santa Maria d’Anglona. Nel 2007 ne è conseguito un convegno internazionale di archeologia, arte e storia lucana che ha visto la presenza di numerosi studiosi provenienti da diversi atenei anche internazionali. Adamesteanu ha reso visibile la Basilicata al mondo accademico nazionale e internazionale, ha istituito la Soprintendenza di Basilicata. Ha fatto molto per noi. È stato un onore conoscerlo. Anche grazie a lui ci sono state molte persone che hanno creduto nell’archeologia, ma che non hanno avuto riscontri lavorativi e riconoscimenti professionali nonostante l’immenso patrimonio culturale presente sul territorio».
Che cosa si potrebbe fare per valorizzare questo grande patrimonio nascosto? E cosa potrebbe portare alla Basilicata?
«Variare i modelli di gestione, commistione tra pubblico e privato, mi ripeto, promuovere anche il turismo esperienziale con nuovi modelli. Mettere in rete i siti culturali regionali con le regioni limitrofe. Una presa di coscienza comune».

 

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