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NESSUNO l’ha detto in modo esplicito, perché la politica ha i suoi riti e il suo linguaggio, ma le reazioni dopo il voto in Abruzzo sono tutte concentrate nell’estremo tentativo di convincere Pittella a fare un passo di lato, a rinunciare a una prova di forza e di orgoglio ferito per l’arresto dopo l’inchiesta sulla sanità. I messaggi  da Roma in politichese sono chiari: agevolare una coalizione con più forze, evitare di presentarsi agli elettori  spaccati e con una folla inspiegabile  di aspiranti governatori. Legnini in Abruzzo non ha vinto, ma ha indicato una strada, soprattutto se teniamo conto che i sondaggi della vigilia davano il suo schieramento al terzo posto, sotto il 20 per cento. 

Invece, c’è stata la rimonta, riuscendo a intercettare anche voti in uscita dai Cinque Stelle e da Forza Italia. Il voto in Abruzzo parla chiaro. Chi ci vuole leggere cose solo gradite interessate, e tirarlo a sostegno della propria parte, commette un errore nemmeno originale nel panorama politico italiano: quello che nessuno perde mai le elezioni. E’ accaduto tante volte in passato, sta avvenendo in queste ore. Quando il risultato delle urne è amaro e impietoso, si vanno a pescare tutti i confronti possibili con i precedenti, fino a trovare la consultazione giusta, quella che consente di far quadrare o di addolcire numeri e percentuali.
   Le prime reazioni di euforia del Pd, soprattutto di alcuni esponenti lucani, sembrano poggiare sull’argilla e non su basi consistenti. In Abruzzo il Pd non ha risolto i suoi guai, la lista si è attestata al 10 per cento. Come non li ha risolti in Basilicata, dove dà l’impressione di una confederazione di feudi e signorotti, con uno che si sente  più potente degli altri, restìo a concordare decisioni e strategie.  Il buon risultato della coalizione di centrosinistra in Abruzzo  lo si deve a un clima di grande unità, tra forze moderate e di sinistra; e al prestigio personale del candidato, Giovanni Legnini, reduce da un importante incarico istituzionale e da sempre portatore di attenzioni  e consensi trasversali. La sua biografia politica non è rimasta mai schiacciata su posizioni settarie o di una sola parte. Uomo di dialogo e di ponti, di confronto e competenze, doti  apprezzate anche  dagli avversari. Se qualche dirigente lucano si è convinto in queste ore che la grande febbre del Pd sia passata, rischia di avere il 24 marzo una cocente delusione.
  La strada di Legnini è quella di una coalizione, messa su in punta di piedi, senza spaccature e divisioni. Si è arrivati alla sua scelta in modo quasi naturale. Con tanti volti nuovi. Ha prevalso la voglia di fare squadra e muro contro populisti e sovranisti. Le legittime ambizioni personali sono passate in secondo piano, davanti a una sfida difficile già in partenza, con nell’aria tutti i segnali di una disfatta annunciata.
   Diversa è invece la situazione in Basilicata. La caparbietà con la quale Marcello Pittella spinge e lotta per arrivare al secondo mandato sta lacerando gli alleati, spaccando il Pd, costretto nomi storici della sinistra a prendere strade diverse. Quello che sconcerta è come mai un uomo navigato e capace come Pittella, cresciuto in una famiglia dove si è sempre respirato un clima politico particolare, non riesca a comprendere che in questo momento sul suo nome non ci possa essere la convergenza messa in campo su Legnini. Non sono in discussione le capacità dell’uomo e del dirigente politico, cui comunque vanno riconosciuti meriti. Il problema è semplice e complicato allo stesso  modo: è opportuno ripresentare come candidato alla presidenza della Giunta regionale un uomo appena reduce da mesi di arresti domiciliari e da divieto di dimora nel capoluogo? Il discorso non è nemmeno di carattere giudiziario: solo la magistratura potrà stabilire se le accuse nei suoi confronti sono state suffragate dai fatti; o se invece si è trattato di un clamoroso abuso giudiziario. Il discorso è di opportunità. Legnini ha affrontato una campagna elettorale come ex vice presidente del Consiglio superiore della magistratura. Mantenendo un profilo alto e sopra le parti. Pittella sarebbe costretto dagli avversari a difendersi tutti i giorni, in un processo anomalo, irrituale, in modi e luoghi non idonei. Potrebbe mettere in campo le idee e i progetti migliori per la Basilicata, verrebbero oscurati dalla grande ombra della vicenda giudiziaria. Certo che si è innocenti fino all’ultimo grado di giudizio. Ma con il clima giustizialista e populista che si respira nel Paese, non ci sarebbe spazio per altro. Lui e la coalizione rischierebbero un massacro anche a scapito della proposta politica. La Basilicata non è l’Abruzzo, come l’Abruzzo non è la Basilicata. In riva all’Adriatico sono più  abituati all’alternanza delle coalizioni di centrodestra e centrosinistra. Dopo gli anni di Gaspari, si è cambiato spesso. La Basilicata rappresenta una terra dove non c’è mai stato un ricambio di colori politici. Possibile che il voto del 4 marzo non abbia insegnato nulla? Nell’elettorato il centrosinistra è oggi minoritario. In grave difficoltà per mille vicende nazionali e non solo. Appesantire la bisaccia con un vicenda giudiziaria complessa, con arresti eccellenti, renderebbe più difficile il cammino allo stesso Pittella. Rischierebbe anche, in caso di tracollo, di bruciare una risorsa politica in grado di avere ancora un ruolo politico in futuro.
Invece si preferisce  giocare  la carta del potere, delle clientele, dei signori delle tessere e dei feudatari del consenso.
Anche le liste guidate da assessori e consiglieri uscenti sono un azzardo dopo il ciclone delle ultime Politiche e i deludenti risultati della legislatura.
Un candidato condiviso da tutte le forze di centrosinistra, un nome fresco, non logorato dagli oneri della gestione del potere,  avrebbe di sicuro più possibilità di portare a casa un risultato positivo, che oggi appare improbabile e problematico. Se non si riesce a intercettare la voglia di voltare pagina e di cambiare tutto, si va di sicuro verso un’altra batosta.  Ma ci vuole coraggio e voglia, tanta voglia di rinnovamento.  Qui, più che in Abruzzo, potrebbe non funzionare la carta acchiappavoti di Salvini sull’immigrazione. E questo grazie a una politica saggia e responsabile sulla  accoglienza,  che in questi anni ha visto decine di sindaci lucani impegnarsi nell’aprire le porte  all’integrazione.   Qui il reddito di cittadinanza potrebbe avere un sapore seduttivo minore, visto che già esiste da tempo.
Resta la forza del Movimento Cinque Stelle. Qualche ottimista si frega le mani dopo il risultato abruzzese. I grillini stanno subendo un travaso di consensi a favore dell’alleato di governo, più lesto, scaltro e spregiudicato nella comunicazione. E  perché qualcuno, visto Toninelli e altri soggetti all’opera,  ha deciso di non votare o di  ritornare al passato (in Abruzzo gli astenuti superano di molto il 40 per cento). Ma dare il M5S in crisi o in regressione sarebbe una errore grossolano. Non è così.  Le elezioni regionali premiano più le coalizioni di chi decide di andare da solo. Affrontare con una  lista schieramenti che hanno anche 10 raggruppamenti eterogenei non aiuta la strategia del partito di Di Maio, più adatto  e portato al clima e al meccanismo delle Politiche.
Piuttosto, il Movimento dovrà in futuro riflettere su questa strategia e magari porsi il problema anche di stringere alleanze elettorali. Il rischio è quello di essere costretti ad annacquare programmi e progetti, ma senza sciogliere questo nodo, sarà sempre Salvini a spuntarla con l’anomalia degli alleati di sempre relegati alla finta opposizione. Poi  si aprono i seggi e   torna tra le braccia del Cavaliere e degli altri.
Una cosa difficile da far accettare e digerire  a lungo ai simpatizzanti e agli elettori pentastellati, già delusi per certi  cedimenti del governo gialloverde.
 

 
 

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