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segue dalla prima
di LUCIA SERINO
politica che non è stata in grado di trasmettere ai cittadini fiducia e condivisione sui progetti. O la rabbia dei cittadini di Melfi e di Pisticci che alzano le braccia davanti alla polizia offrendo come ultimo elemento di protesta il loro corpo a difesa dello scippo del tribunale. Esattamente come fecero i cittadini di Tinchi a difesa dell’ospedale. Eppure chiediamoci fino in fondo contro chi sono rivolte realmente queste proteste. 
Se la percezione degli uomini e delle donne e dei giovani che ieri protestavano a Melfi nasce dalla reale consapevolezza di una irrazionale redistribuzione degli uffici giudiziari o non sia piuttosto il sintomo dell’insofferenza di una popolazione che percepisce di essere stata abbandonata dalle istituzioni. E peggio ancora di essere vittima di una discriminazione. Oggi il tribunale, domani chissà. Chiediamoci in altri termini se la rabbia e la protesta non siano l’esplosione di un odio cieco verso una politica avvertita come tiranna, privilegiata e dispensatrice di privilegi, disattenta ai territori, incapace di fare in maniera equa. Se l’accorpamento dei tribunali fosse stato accompagnato, dico per dire, da una serie di provvedimenti di snellimento dell’iter giudiziario, da una depenalizzazione di una serie di reati, io credo che le proteste ci sarebbero state lo stesso. 
Ci sarebbe da discutere molto, e in ogni campo, sul perchè dei no a prescindere. In Basilicata e nell’Italia intera. E’ fuor di dubbio, parlando ad esempio di ospedali, che la moltiplicazione delle strutture sanitarie nei decenni passati abbia risposto a logiche clientelari. Come il moltiplicarsi delle università: un modo per assegnare primariati e conferire cattedre. I privilegi di ieri diventano diritti acquisiti di oggi, le storture propagandate ieri come servizio diventano i radicamenti di oggi che nessuno può più toccare. Riequilibrare, liddove si è fatto male, è difficile.
Come ragionavo l’altro giorno in Rete, la buona fede ci impone di ammettere che le nostre azioni vanno valutate non sempre sull’esito dei risultati, ma sul senso che esse hanno avuto. Il Tribunale di Melfi chiuderà. La protesta non avrà effetti, ma era giusto praticarla. 
Lo stesso principio vale però, anche al contrario. Per le cose buone che qualcuno cerca di mettere in pratica e che subiscono immediatamente il plotone di esecuzione. 
Tutto quello di cui in questo momento non abbiamo bisogno è la logica del no a prescindere. Mi ha molto colpito, ad esempio, l’attacco a mio avviso ingiusto che sta avendo la Cgil per la festa della settimana scorsa. Prima un sindacato concorrente, poi il Pdl. Perchè spendono soldi (con l’immancabile: chissà quanto hanno speso) – questo il senso del ragionamento – pensassero al lavoro che non c’è. Mi sembra di sentire le parole di mio padre che davanti alle mie reiterate richieste di andare al cinema o a fare viaggi brontolava: ma io e tua madre non l’abbiamo mai fatto, bisogna risparmiare e fare sacrifici. Mi sono chiesta tante volte, da adulta, se avesse ragione lui (sicuramente onesto nel suo sentire) e se ho fatto meglio io, invece, a disobbedire scegliere l’interrail notturno pur di attraversare l’Europa. Erano gli anni Sessanta e quella generazione uscì dalla depressione con l’etica del risparmio ma anche di una concezione del consumo dei beni che diventava inconsapevolmente sperpero. Erano più importanti i simboli dello stare insieme – i locali dove sposarsi, dove fare i battesimi, le feste ai figli – piuttosto che il ritrovarsi. L’Italia cresceva eppure dobbiamo convincerci che la crisi di oggi è iniziata proprio con il boom di quegli anni. Quanto superfluo ci siamo concessi? Il superfluo era il riscatto della borghesia emergente. 
Cosa facciamo, oggi, in tempo di depressione? Dobbiamo ridurre, o meglio, essenzializzare, ripensare alla gerarchia dei bisogni ma soprattutto avere un’idea di futuro. Che non può fare a meno di conoscenze e competitività intellettuali, anche se decidiamo di fare i contadini. Io non mi sono ancora rassegnata alla fine del mondo e sto alla larga dagli scoraggiatori di professione, come dice Franco Arminio. In tempo di crisi dobbiamo innanzitutto ritrovarci, per sapere che non siamo soli, per capire come fanno gli altri, per non rovinarci nell’angoscia della sensazione di un privilegio mancato. Non sono mai stata iscritta a un sindacato, neanche a quello della mia categoria. Però l’altra sera, in piazza don Bosco a Potenza, ho visto un sacco di gente. Non mi interessa se la Cgil è sponda politica del Pd (anzi per dirla tutta, spesso è stata strumentale ai conflitti interni del Pd). Mi interessa che un sindacato inizi a fare quello che dovremmo fare tutti: che contribuisca cioè a creare un clima di fiducia offrendosi non ai suoi iscritti ma a una comunità allargata.
La contemporaneità ci dice che gli egoismi si devono intersecare creando nodi di connessione. Tu mi offri, io ricambio, insieme si può fare meglio. In piazza c’erano associazioni, artisti, volontari, uomini, donne, le campane della messa e i ragazzini che giocavano a pallone. C’era un palco per la musica, tre concerti in tre sere, le foto restituiscono una piazza piena che ballava. Non è distrazione di massa, né distrazione dai traguardi primari. E dire piuttosto: io sono qui e di me puoi fidarti. Tutto quello di cui non abbiamo bisogno è la percezione della tristezza dell’abbandono, dell’isolamento e della decadenza che diventa inabilitante, paralizzante. In prima fila domenica c’era Carmine Vaccaro, gli ho detto, scherzando: ora tocca a voi. Sono le feste a invito che non ci piacciono. Ma il ritrovarsi di una comunità a porte aperte perchè deve suscitare disprezzo? Così come Matera2019. 
Io tifo perchè si realizzi il sogno. Ma se il sogno non dovesse avverarsi perchè calpestare e scoraggiare chi prova a praticarlo? Scherzavo ma non troppo con il professor Ribba che mi accusava, dalla sua postazione remota, di essere compiacente. Gli rispondevo che non mi piacciono gli indignati a prescindere. Si rischia di andare all’inferno. Nè mi sembra saggio rispetto a una proiezione mondiale volerla bilanciare a tutti i costi con i disagi di una città, con le buche delle strade, ad esempio. Criticare il dossier va bene ma abbiamo l’obbligo morale di sostenere con le parole e i sentimenti giusti l’orgoglio di una comunità. Offriamo i nostri contributi, oltre che distruggere quelli degli altri. I cattivi comportamenti vanno denunciati e non mi pare che la cronaca ci liberi da questo dovere. Ma possibile che c’è sempre “ben altro” che gli altri dovrebbe fare? 
l.serino@luedi.it

 

Il punto di partenza imprescindibile è la rabbia e la disperazione di chi, come il disoccupato del consorzio agrario dell’altro giorno, esplode davanti ai volti attoniti di una continua politica che non è stata in grado di trasmettere ai cittadini fiducia e condivisione sui progetti. O la rabbia dei cittadini di Melfi e di Pisticci che alzano le braccia davanti alla polizia offrendo come ultimo elemento di protesta il loro corpo a difesa dello scippo del tribunale. Esattamente come fecero i cittadini di Tinchi a difesa dell’ospedale. 

Eppure chiediamoci fino in fondo contro chi sono rivolte realmente queste proteste. Se la percezione degli uomini e delle donne e dei giovani che ieri protestavano a Melfi nasce dalla reale consapevolezza di una irrazionale redistribuzione degli uffici giudiziari o non sia piuttosto il sintomo dell’insofferenza di una popolazione che percepisce di essere stata abbandonata dalle istituzioni. E peggio ancora di essere vittima di una discriminazione. Oggi il tribunale, domani chissà. Chiediamoci in altri termini se la rabbia e la protesta non siano l’esplosione di un odio cieco verso una politica avvertita come tiranna, privilegiata e dispensatrice di privilegi, disattenta ai territori, incapace di fare in maniera equa. Se l’accorpamento dei tribunali fosse stato accompagnato, dico per dire, da una serie di provvedimenti di snellimento dell’iter giudiziario, da una depenalizzazione di una serie di reati, io credo che le proteste ci sarebbero state lo stesso. Ci sarebbe da discutere molto, e in ogni campo, sul perchè dei no a prescindere. In Basilicata e nell’Italia intera. 

E’ fuor di dubbio, parlando ad esempio di ospedali, che la moltiplicazione delle strutture sanitarie nei decenni passati abbia risposto a logiche clientelari. Come il moltiplicarsi delle università: un modo per assegnare primariati e conferire cattedre. I privilegi di ieri diventano diritti acquisiti di oggi, le storture propagandate ieri come servizio diventano i radicamenti di oggi che nessuno può più toccare. Riequilibrare, liddove si è fatto male, è difficile.

Come ragionavo l’altro giorno in Rete, la buona fede ci impone di ammettere che le nostre azioni vanno valutate non sempre sull’esito dei risultati, ma sul senso che esse hanno avuto. Il Tribunale di Melfi chiuderà. La protesta non avrà effetti, ma era giusto praticarla. Lo stesso principio vale però, anche al contrario. Per le cose buone che qualcuno cerca di mettere in pratica e che subiscono immediatamente il plotone di esecuzione. 

Tutto quello di cui in questo momento non abbiamo bisogno è la logica del no a prescindere. Mi ha molto colpito, ad esempio, l’attacco a mio avviso ingiusto che sta avendo la Cgil per la festa della settimana scorsa. Prima un sindacato concorrente, poi il Pdl. Perchè spendono soldi (con l’immancabile: chissà quanto hanno speso) – questo il senso del ragionamento – pensassero al lavoro che non c’è. Mi sembra di sentire le parole di mio padre che davanti alle mie reiterate richieste di andare al cinema o a fare viaggi brontolava: ma io e tua madre non l’abbiamo mai fatto, bisogna risparmiare e fare sacrifici. Mi sono chiesta tante volte, da adulta, se avesse ragione lui (sicuramente onesto nel suo sentire) e se ho fatto meglio io, invece, a disobbedire scegliere l’interrail notturno pur di attraversare l’Europa. Erano gli anni Sessanta e quella generazione uscì dalla depressione con l’etica del risparmio ma anche di una concezione del consumo dei beni che diventava inconsapevolmente sperpero. Erano più importanti i simboli dello stare insieme – i locali dove sposarsi, dove fare i battesimi, le feste ai figli – piuttosto che il ritrovarsi. L’Italia cresceva eppure dobbiamo convincerci che la crisi di oggi è iniziata proprio con il boom di quegli anni. 

Quanto superfluo ci siamo concessi? Il superfluo era il riscatto della borghesia emergente. Cosa facciamo, oggi, in tempo di depressione? Dobbiamo ridurre, o meglio, essenzializzare, ripensare alla gerarchia dei bisogni ma soprattutto avere un’idea di futuro. Che non può fare a meno di conoscenze e competitività intellettuali, anche se decidiamo di fare i contadini. Io non mi sono ancora rassegnata alla fine del mondo e sto alla larga dagli scoraggiatori di professione, come dice Franco Arminio. In tempo di crisi dobbiamo innanzitutto ritrovarci, per sapere che non siamo soli, per capire come fanno gli altri, per non rovinarci nell’angoscia della sensazione di un privilegio mancato. 

Non sono mai stata iscritta a un sindacato, neanche a quello della mia categoria. Però l’altra sera, in piazza don Bosco a Potenza, ho visto un sacco di gente. Non mi interessa se la Cgil è sponda politica del Pd (anzi per dirla tutta, spesso è stata strumentale ai conflitti interni del Pd). 

Mi interessa che un sindacato inizi a fare quello che dovremmo fare tutti: che contribuisca cioè a creare un clima di fiducia offrendosi non ai suoi iscritti ma a una comunità allargata.La contemporaneità ci dice che gli egoismi si devono intersecare creando nodi di connessione. Tu mi offri, io ricambio, insieme si può fare meglio. In piazza c’erano associazioni, artisti, volontari, uomini, donne, le campane della messa e i ragazzini che giocavano a pallone. C’era un palco per la musica, tre concerti in tre sere, le foto restituiscono una piazza piena che ballava. 

Non è distrazione di massa, né distrazione dai traguardi primari. E dire piuttosto: io sono qui e di me puoi fidarti. Tutto quello di cui non abbiamo bisogno è la percezione della tristezza dell’abbandono, dell’isolamento e della decadenza che diventa inabilitante, paralizzante. In prima fila domenica c’era Carmine Vaccaro, gli ho detto, scherzando: ora tocca a voi. Sono le feste a invito che non ci piacciono. Ma il ritrovarsi di una comunità a porte aperte perchè deve suscitare disprezzo? Così come Matera2019. Io tifo perchè si realizzi il sogno. 

Ma se il sogno non dovesse avverarsi perchè calpestare e scoraggiare chi prova a praticarlo? Scherzavo ma non troppo con il professor Ribba che mi accusava, dalla sua postazione remota, di essere compiacente. Gli rispondevo che non mi piacciono gli indignati a prescindere. Si rischia di andare all’inferno. Nè mi sembra saggio rispetto a una proiezione mondiale volerla bilanciare a tutti i costi con i disagi di una città, con le buche delle strade, ad esempio. Criticare il dossier va bene ma abbiamo l’obbligo morale di sostenere con le parole e i sentimenti giusti l’orgoglio di una comunità. Offriamo i nostri contributi, oltre che distruggere quelli degli altri. I cattivi comportamenti vanno denunciati e non mi pare che la cronaca ci liberi da questo dovere. 

Ma possibile che c’è sempre “ben altro” che gli altri dovrebbe fare?

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