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LA pressoché totale esclusione delle donne  dalle candidature per le prossime elezioni regionali non dovrebbe stupire più di tanto: è coerente con i molteplici processi di emarginazione e di sopraffazione, in cui la donna lucana storicamente si imbatte.

In politica non è bastato nominare in un recente passato tre donne nella giunta regionale: una rondine non fa primavera.  E per la stessa rondine non sempre, purtroppo, è possibile registrare innovazioni politiche e gestionali elevate, se si esclude l’assessora  Rosa Gentile che ha dimostrato qualità direzionali e gestionali  molto apprezzabili, riconfermate, peraltro, alla presidenza dell’Acquedotto lucano. Non basta essere donna per produrre virtuosità politiche ed economiche.

È un dato incontrovertibile che il divario di pari opportunità di genere in politica è abissale.

Ed è forse il nodo principale del sottosviluppo economico e sociale della regione, se è vero che la politica è il campo di attività intorno al quale si snodano le scelte e le misure di disciplina ed organizzazione della società.

Lasciare prevalentemente alla componente maschile il compito di esaminare e portare a soluzione le problematiche che attengono alle donne (lavoro, ruolo politico, ecc.) limita e mina il processo di partecipazione democratica delle due componenti di base, su cui si articola il tessuto regionale.

Le donne, come si usa dire, rappresentano la metà del cielo, non tener conto neanche lontanamente di questo dato nella distribuzione delle rappresentanze all’interno delle  organizzazioni produttive e politiche costituisce un vulnus che le società avanzate hanno superato da tempo.

Base di partenza per colmare tale lacuna è il lavoro femminile, nelle sue varie accezioni ed implicazioni  (l’accesso e la collocazione nel sistema produttivo, la conciliazione del lavoro con le esigenze familiari, il riconoscimento del lavoro delle casalinghe, le diverse forme di contratto di lavoro, le politiche per la famiglia).

Le discriminazioni, i ritardi culturali, la(dis)organizzazione della struttura produttiva che penalizza fortemente la donna lucana sono tematiche che non vengono minimamente considerate, al netto della già denunciata esclusione della stessa dalle istituzioni politiche.

L’occupazione femminile è sotto di ben 23 punti rispetto a quella maschile (35, 8 contro il 58% , dati Svimez,  relativi al 2012), la disoccupazione femminile registra uno sbilancio dimensionale ancora più profondo, incidendo per due terzi sul totale, il popolo degli “scoraggiati” nella ricerca di un impiego si declina soprattutto al femminile,  il part time , ossia l’istituto contrattuale che meglio si presta per la donna a conciliare lavoro e famiglia, viene poco praticato, collocando la Basilicata agli ultimi gradini della specifica scala lavorativa, più in generale la donna viene considerata dalle imprese un “affaticamento organizzativo” che costa molto alle aziende, anche per il ricorso talvolta a gravidanze difficili, anche quando non ne  sussistono le condizioni, apportando in questo caso un grave danno alle  altre donne in cerca di lavoro.

Le nuove generazioni di donne lucane sono molto più determinate dei maschi: molte studiano e  portano a compimento i propri percorsi scolastici  e lo fanno con maggiore impegno, conseguendo performance più elevate. Ma in Basilicata vige la regola del” più studi e meno lavori”, soprattutto se appartieni al sesso femminile.

Tale paradosso segna un nodo sul futuro della regione. Non ci si può permettere di utilizzare parzialmente oltre il 50% della forza lavoro disponibile. Continuare a farlo rappresenta una spreco di risorse che mina drammaticamente un altro nodo, quello cioè del declino demografico (saldo naturale e saldo migratorio da tempo entrambi negativi) che, se protratto ulteriormente, farà venire meno il capitale umano necessario per impostare qualsiasi progetto di sviluppo.  Denatalità, disoccupazione ed emigrazione rappresentano i principali fattori per negare un futuro alla regione. Vanno rimossi ed anche rapidamente, ponendo al centro delle politiche del lavoro la componente femminile. Che è quindi ad un tempo emergenza lavorativa e fattore strategico di crescita.  Si tratterebbe di imitare regioni come la Toscana che con una apposita legge ha condizionate tutte le misure socioeconomiche da varare a tale obiettivo e riprendere almeno parzialmente e nei limiti delle proprie competenze le politiche per la famiglia attuate in Francia.

Solita domanda finale: c’è da parte della classe dirigente regionale e di quella politica in particolare la percezione di tale tematiche? Stando a ciò che è dato vedere in questi giorni sul piano politico, lo scetticismo è d’obbligo.

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