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COL covid-19 la tempesta perfetta nazionale ha avuto il suo imprinting finale: Siamo ben lontani dal clima politico-sociale del ’48 del secolo scorso, il disastro era all’epoca paragonabile a quello attuale, ma disponevamo di una diversa classe dirigente, di una grande voglia nel Paese di rinascere da parte della società nel suo insieme, di aiuti importanti degli americani. Oggi gli aiuti europei in proporzione al Pil sono quasi doppi rispetto al secondo dopoguerra, ma siamo fortemente e negativamente condizionati da un clima politico che definire sciagurato è poco: impazza il sovranismo, il regionalismo divisivo, il populismo sfrenato, un antieuropeismo per il momento sottotraccia, alla luce delle enormi risorse acquisite in sede europea, tutti fattori conseguenti ad un processo politico che ha preso le mosse dalla disastrosa azione di “mani pulite”, avviata proprio dal sorgere di un populismo di sinistra e di destra che ne ha legittimato l’opera. Non che non ci fosse la corruzione, alimentata dai partiti, che tutti conoscevano, compresi proprio i magistrati, che per decenni si è fatto finta di non vedere, ma si è impedito dai tanti sbandieratori della questione morale a uso e consumo proprio, con in testa il Pci e la magistratura, l’unica soluzione possibile alla questione che non poteva che essere politica.

I movimenti populisti, le stesse sardine e così via esprimevano ed esprimono tuttora una necessità di cambiamento, ma sono la scelta sbagliata ad un problema reale.

Sono emersi i politici bambini, gli incompetenti, che hanno motivato gli ignoranti, ossia coloro che sono scarsamente informati, coloro che hanno paura del diverso, fagocitati da politici che seminano odio. In tale contesto deprimente, prevalgono i satrapi che governano i 20 staterelli regionali che si guardano bene dal lavorare per un paese coeso, che vivono sulla rendita politica dovuta alla contrapposizione tra Nord e Sud.

C’è, come dire, un dialogo tra sordi, con ognuno che parla per sé, senza alcuna attenzione per le ragioni degli altri, molto lontani dalla ricerca di quella verità che o è un bene comune o non è, come ci ricordava il filosofo Aldo Masullo, recentemente scomparso.

Il Nord è ottusamente ripiegato sui propri egoismi, avanzando l’idea della contrapposizione tra “formiche” e “cicale” che è troppo semplicistica. In Basilicata, per fare un esempio, alla Fca di Melfi, agli stabilimenti della Barilla e della Ferrero i lavoratori utilizzati garantiscono livelli di produttività tedesca o giapponese, molti lucani emigrati al Nord occupano posizioni di rilievo in tanti comparti produttivi.

Il problema è il contesto in cui i lavoratori vengono collocati: nel privato sono bravi, efficienti, nel pubblico sono inefficienti in molti casi, demotivati da una classe politica che, proprio facendo leva sulla inefficienza, attiva la sua storica offerta di clientelismo e assistenzialismo.

Dove sbaglia la Lega? Sbaglia nello strumentalizzare i mali del Mezzogiorno per ottenere maggiori vantaggi per sé, in fondo il regionalismo differenziato scaturisce da questo concetto, sbaglia nel rinunciare a contribuire alla soluzione della questione meridionale, pensando addirittura a disegni secessionisti che vanno e vengono in rapporto, al segno dei tempi.

Dove sbaglia il Sud? Nel non capire che il mancato sviluppo non dipende dalla carenza di aiuti, bensì dalla incapacità della classe dirigente locale di creare beni e servizi collettivi, incapacità da sempre tollerata dal centro e dal Nord per ragioni di consenso (cfr. “non c’è Nord senza Sud”, di Carlo Trigilia).

Siamo in realtà avanti a entrambe le classi dirigenti incapaci di pensare ed agire insieme. Una situazione insopportabile purtroppo solo per una modestissima minoranza.

Siamo in presenza di due oligarchie contrapposte che innescano il vero circolo vizioso che impedisce al Paese di essere competitivo col resto dell’Europa da almeno 25 anni.

Anche se le cause di ciò risalgono almeno al secondo dopoguerra, col prevalere delle due chiese, quella cattolica e quella comunista che tra l’altro non ha mai voluto e saputo fare i conti col fallimento della ideologia di riferimento.

I comunisti italiani non hanno avuto il coraggio di fare la loro Bad Gotesberg, neanche dopo il crollo del muro di Berlino. Sono rimasti ancorati al compromesso prima strisciante e poi storico, non potendo fare altro, a causa degli accordi di Yalta, che non prevedeva una Italia nell’orbita sovietica, mirando ossessivamente a garantirsi l’egemonia a sinistra, congelando una grande forza politica, su cui avvalersi per modernizzare il Paese.

Con la due suddette chiese, pensare all’avvento di un sistema liberale era ed è tuttora praticamente impossibile. Non c’è spazio, né cultura per realizzarlo, con buona pace dei vari Popper, Hayek e Mises.

Quando si è trattato di provare ad ammodernare il Paese, sono scattati gli anticorpi conservatori dello status quo, riservando a coloro che volevano intraprendere tale percorso (Craxi e Renzi, per fare qualche nome) attacchi furibondi, ricorrendo, al cialtronismo mediatico, descrivendoli, con gli “stivaloni o come bulli, per mancanza di ponderate argomentazioni, ricevendo comunque e in particolare grandi apprezzamenti dalla cosiddetta sinistra

Le riforme strutturali non le vogliono i principali destinatari delle stesse: non i magistrati, quella delle giustizia, non gli evasori, quella del fisco, non i sindacati, quelle del lavoro, della scuola, non i Costituzionalisti, quella costituzionale e così via.

Se non siamo una società aperta, se abbiamo una oligarchia ben nascosta dalla sua maschera democratica, lo dobbiamo alla miriade di corporazioni territoriali e settoriali che non fanno l’Italia, né gli italiani, attestate, come sono, nei loro privilegi castali.

Leggendo “L’Italia delle autonomie” dell’economista Giorgio Arfaras e ascoltando gente come Carlo Cottarelli che sta pensando di entrare in politica, ho fatto un sogno (a volte anch’io mi monto la testa): Che stia nascendo finalmente un movimento lib-lab che si collochi al centro della politica nazionale. Arfaras ed altri esperti sostengono che occorra un “federalismo gentile”, che si basi sulla modificazione della spesa e non su rivendicazioni di “materie” da sottrarre allo Stato, che vi sia un forte Stato unitario e autonomie regionali che non si sottraggano alla coesione di carattere nazionale.

L’idea è né “statalisti, né, regionalisti, ma italiani.

E’ avvilente che la Lombardia venga governata da un leghista come Attilio Fontana.

Il professor Quadrio Curzio, lombardo e profondo conoscitore di quella realtà, ha evidenziato di recente che serve, per ragioni storiche e funzionali, una Lombardia di “tipo solidale e non competitivo”. Deve essere cooperativa come il modello tedesco, ricordando che fin dall’Unità e poi nel dopoguerra che il grande sviluppo lombardo ha molto usufruito del contributo del Sud , non solo come manodopera, ma anche nelle eccellenze, nei cervelli che sono affluiti al Nord che non legittimano atteggiamenti rivendicativi nordisti.

I suddetti intellettuali concordano sul fatto che occorra rivedere il titolo V, riducendo le regioni, abolendo le più piccole e riportando nell’ordinarietà, quelle oggi “speciali”.

Tutto questo non si può fare col contesto politico attuale, né è pensabile di inserirsi in tale ambiente, refrattario, com’è, ad un disegno di cambiamento riformistico. Occorre una forza nuova, autenticamente liberale e solidale, i poteri forti la smettano di assecondare la realtà politica vigente. Sta crescendo un’onda stufa dei sovranismi, dei salvinismi, e dei grillismi che mi auguro possa crescere.

Suvvia, un grande paese come l’Italia non può più essere governata da “questi qua”, per dirla con Filippo Ceccarelli.

Coloro che ho citato in precedenza sono solo una parte dei soggetti che potrebbero salvare l’Italia, perché è di questo che si tratta. Le nuove generazioni a costoro dovrebbero fare riferimento e non alle favole ideologiche di partiti vecchi e nuovi che la stanno distruggendo.

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