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NEL GIORNO DEL taglio del nastro dello spazio lucano all’Expo, l’anti-renziano Vincenzo Folino ha avvelenato i pozzi (nel senso petrolifero del termine) rovinando la festa del Frank Underwood di Lauria, Marcello Pittella. Uno faceva rivelazioni succosissime per la stampa locale, l’altro – con piglio leaderistico alla “House of cards” – si perdeva nel megaevento milanese alle prese con food, our water e, chissà, ricadute italiote del voto londinese.

A proposito: i renziani hanno già salmodiato la loro analisi della vittoria di Cameron, e una vignetta di Vincino sulla prima pagina del renzianissimo Foglio di ieri secondo cui David Cameron è il “Matteo Renzi degli inglesi” spiega molto.

Ma se ieri tutte le aperture dei quotidiani nazionali erano dedicate al voto inglese, qui in Basilicata il tormentone è – manco a dirlo – la spy story sugli interessi inglesi nell’investimento estrattivo a Montegrosso: con perfetto tempismo da storyteller (trad.: narratore), Folino nella saletta della Fondazione BasilicataFuturo ha prima creato suspense («lo dirò al secondo giro») e poi infilato la chicca, poco complottista e anzi molto documentata, durante la presentazione dell’altrettanto documentato libro di Giovanni Fasanella sul perenne golpe inglese che ha minacciato l’Italia del compromesso storico di Moro (e, appunto, del petrolio di Mattei). Insomma, mentre il governatore tagliava nastri e si beava a Milano dell’olive oil nostrano, altrimenti detto oro giallo, in casa gli arrivava una doccia fredda di oil e basta, ovvero petrolio altrimenti detto oro nero. Dal claim “Nutrire il pianeta” di Expo2015 al motto “Ingrassare le major” dei no triv il passo è breve.

È uno strano ma affascinante intreccio questo Basilicata-Inghilterra. E l’ambasciatore, piccato col ministro Guidi per la difficoltà della multinazionale d’Oltremanica nell’investire 4 miliardi in estrazioni, è una figura quasi letteraria di questo intrigo internazionale nel quale lo storyteller Folino ha anche aggiunto una spruzzatina di servizi segreti («Magari anche tra noi c’è un informatore che uscito di qui scriverà la sua relazione agli inglesi. A Scanzano queste cose succedevano…», ha ironizzato l’altro ieri).

Strano intreccio ma non inedito, basti pensare al Lucaniashire di Irsina, isola felice di insediamenti vacanzieri della upper-class inglese.

Se poi googlate “Pittella + inglese” vi appariranno 36mila risultati in un quarto di secondo e come primo link il video col faccione di Gianni da Bruxelles il cui eloquio anglo-lucano, in un caso di scuola di involontario marketing politico al contrario eppure efficacissimo, divenne se possibile ancora più virale dei discorsi del premier in anglo-fiorentino ufficiale.

Non che l’inglesorum sia una tara solo di Pittella o in genere meridionale: gli strafalcioni 100% milanesi nella cartellonistica Expo (“Dowtown” senza N, “But” invece di “Buy your ticket”, “The machine gives tre rest” eccetera) lo dimostrano. A questo punto meglio il latinorum dei nostri antenati: come dire, Italicum do it better, senza dimenticare che anche la Britannia fu provincia romana in età imperiale e il Vallum Adriani, in fatto di confini fortificati, precedette di secoli il “Wall” degli olandesi a Manhattan (poi divenuto “street”) o il Muro di Berlino.

Perché le radici sono importanti. Sarà, ma la Regione Basilicata – in vena di ecumenismo da Capitale europea della cultura – accanto ai simboli della tradizione rurale e antropologica portati in trasferta (il cucù di Matera, i palmenti di Pietragalla, le marionette carnevalesche di Tricarico, la terracotta di San Giorgio, la moneta antica di Metaponto) ha deciso di presentarsi con un bel “Our water your life”, divenuto in tempo reale “Our water closed” nel fotoritocco social di Enzo Carnevale che tutti ci aspettavamo, in assenza di corni su cui sorridere. Uno sfottò che non sarebbe stato possibile se lo slogan fosse stato concepito in italiano.

Vorrà dire che Pittella-Underwood e il suo team si troveranno pronti quando gli inglesi caleranno a Montegrosso (nell’attesa giusto qualche ripetizione sulla pronuncia, vabbe’). Piuttosto, in pieno spirito autarchico si potrebbe obiettare – coi nostri amici accademici della Crusca – che intanto sarebbe consigliabile parlare bene la lingua natia e poi, al limite, coltivare quella della perfida Albione: tornando all’incontro politico-letterario-petrolifero con Folino e Fasanella, per dire, l’altro ieri abbiamo sentito tra le altre cose un «golpi» come plurale di golpe e svariati «anglofono» invece di anglofilo. Un inglesorum ci seppellirà? Sì, ma anche un italianorum.

e.furia@luedi.it

 

 

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