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POTENZA – Le due donne che facevano le pulizie nella chiesa della Trinità hanno taciuto sulla scoperta del corpo di Elisa Claps due mesi prima del suo ritrovamento “ufficiale”, e poi mentito di fronte agli inquirenti. Loro sole, senza la complicità di nessuno nella chiesa potentina, o altrove, hanno ostacolato le indagini su un segreto lungo 17 anni. Un segreto che ha protetto il suo assassino, lasciandolo libero di uccidere ancora, e negando alla famiglia un corpo su cui piangere in pace.

E’ quanto ha stabilito il giudice Marina Rizzi, che ieri sera ha condannato Margherita Santarsiero e la figlia Annalisa Lovito, entrambe di Potenza, a 8 mesi di reclusione (pena sospesa) per false informazioni ai pm, oltre al risarcimento per la parte civile (da liquidarsi in separata sede) e al pagamento delle spese processuali.

La sentenza è arrivata al termine di una camera di consiglio durata 7 ore, dopo le discussioni del pm Laura Triassi, dell’avvocato di parte civile Giuliana Scarpetta per la famiglia Claps e di Maria Bamundo per le due imputate.

In aula l’accusa aveva chiesto una condanna a 6 mesi, e la trasmissione in procura dei verbali dei testimoni sentiti in udienza per cui fossero emersi ulteriori profili di falsità. «Le due donne delle pulizie sono solo l’ultimo anello della catena», è stata la sua spiegazione. Ma il giudice ha deciso di non dare seguito alle incongruenze e le contraddizioni emerse dai vari interrogatori: quelle degli operai rumeni che il 17 marzo del 2010 diedero l’allarme poco prima dell’arrivo della polizia; come quelle del ex viceparroco della Trinità, don Vagno Oliviera e Silva, che ha ammesso di essere salito lassù con le donne e di aver provato ad avvisare il vescovo della situazione, salvo poi dimenticare tutto fino all’esplosione del caso. Una decisione che ha fatto insorgere sia i familiari di Elisa Claps, sia il difensore delle due donne delle pulizie che ha parlato di «sentenza pilatesca» e delle sue assistite come «capri espiatori» di qualcosa di più grande di loro.

Nella sua arringa il pm aveva ripercorso i capitoli più oscuri del giallo di Potenza, a partire dai lavori effettuati nel sottotetto della chiesa nel 1996, 3 anni dopo la scomparsa di Elisa Claps.

All’epoca, sistemando i cassettoni che ancora oggi decorano il soffitto dell’aula sacra, venne posizionato un tirante di metallo a 15 centimetri dal braccio della ragazza. Ma nessuno tra gli operai e i responsabili di quell’intervento ha ammesso né ha saputo indicare chi è salito lassù per fissarlo.

Nessuno ha mai spiegato chi abbia aperto una “finestra” nel tetto della chiesa, proprio in corrispondenza del corpo, rimuovendo le assi di legno che si trovavano sotto le tegole.

Come pure chi ha coperto i resti della 16enne col materiale di cui si è trovato traccia sui suoi abiti. Una traccia di ruggine, in particolare, che ha fatto pensare a un chiodo infilato proprio in un asse di legno lasciato lì a marcire per anni.

Il pm ha accusato le due donne delle pulizie, e in particolare Margherita Santarsiero, di aver “ripulito” la scena, portando via un discreto quantitativo di «spazzatura» dal sottotetto. Materiale che avrebbe potuto far luce sulle responsabilità per l’occultamento del corpo di Elisa Claps. Quella di Danilo Restivo (già condannato in via definitiva a 30 anni di reclusione), innanzitutto. Ma anche quella dei suoi eventuali complici, e di quanti nel tempo hanno osservato cosa c’era lassù, ma hanno deciso di restare in silenzio. A meno di non credere che l’ex ragazzo di Erice abbia fatto davvero tutto da solo, camuffando quei resti in modo tale che nessuno li avrebbe riconosciuti a prima vista, senza smuovere le tegole e quant’altro c’era poggiato sopra.

Le due donne – sempre secondo la ricostruzione dell’accusa – sarebbero salite nel sottotetto della chiesa a gennaio/febbraio del 2010, qualche settimana prima del ritrovamento “ufficiale”. La versione dei sacerdoti sfilati in aula è che nei giorni successivi sarebbero dovuti arrivare degli operai, per riparare un’infiltrazione d’acqua. Di qui la necessità di sgombrare il sottotetto, per permettere lo svolgimento dei lavori. Solo che una volta arrivate nell’angolo più buio tra il solaio e la facciata della chiesa avrebbero riconosciuto quel corpo steso lungo il muro. Poi sarebbero scese a chiamare il viceparroco brasiliano don Vagno, e risalite con lui per constatare la situazione.
Il giovane sacerdote ha dichiarato che all’epoca non sapeva nulla del caso di Elisa Claps, mentre le due donne accennarono a una ragazza scomparsa tempo prima a Potenza. Loro invece all’inizio hanno sostenuto all’unisono di non essere mai salite, ma si sono contraddette più avanti. In particolare durante un confronto “all’americana” con don Vagno di fronte agli inquirenti della procura di Salerno, quando la madre, Margherita Santarsiero, ha ammesso di aver visto il corpo e di aver portato via alcune buste di spazzatura, descrivendo con minuzia di particolari lo stato dei luoghi. Salvo ritrattare tutto in seguito.
«Da questo punto in poi è calata una cortina fumogena». Ha tuonato in aula il pm Laura Triassi, paventando in maniera non troppo velata che il ritrovamento “ufficiale” non sia stato altro che una messinscena. Sulla stessa linea da sempre la famiglia Claps, che attraverso il suo legale ha parlato di un «teatrino» mettendo in dubbio anche l’esistenza delle infiltrazioni d’acqua in chiesa.
«Non si doveva fare nessun lavoro perché quegli operai sono saliti nel sottotetto senza l’attrezzatura necessaria». Ha affermato l’avvocato Scarpetta, chiedendo a sua volta la trasmissione degli atti in procura per l’apertura di una nuova inchiesta sulle bugie di chi aveva commissionato quei “finti lavori”: in primis il vescovo Agostino Superbo.
«Avevo chiesto coraggio al giudice per ottenere una decisione che per quanto all’apparenza ingiusta avesse i requisiti della giustezza». Ha dichiarato all’uscita dall’aula l’avvocato Maria Bamundo, che ha sempre sostenuto l’innocenza delle sue assistite. «La mancata trasmissione degli atti ci lascia capire che sono loro i capri espiatori e la situazione si deve chiudere così. Ma come andrà a finire si vedrà più avanti. Ricorreremo in appello e se necessario anche in Cassazione per far valere le nostre ragioni».
Le motivazioni della sentenza verranno depositate entro 90 giorni.

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