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POTENZA – Potrebbe tornare a casa dopo 7 anni di carcere Nicola Viceconte, il 65enne di Lagonegro condannato in via definitiva per l’omicidio del 19enne Pasquale Di Silvio, il 19 febbraio del 2014.
E’ questo il risultato della pronuncia con cui la Corte di cassazione ha accolto il ricorso presentato dallo stesso Viceconte restituendo gli atti al Tribunale di sorveglianza di Potenza per una nuova valutazione sul caso.


A dicembre dell’anno scorso, infatti, i giudici lucani avevano già respinto la domanda di differimento della pena, «anche nelle forme della detenzione domiciliare», che era stata presentata da Viceconte.
Il 65enne aveva evidenziato, in particolare, di soffrire di una serie di patologie «di una certa consistenza e gravità», che ne hanno già determinato il trasferimento dal carcere di Melfi a quello di Foggia, meglio attrezzato dal punto di vista dell’assistenza sanitaria. Proprio i medici della casa circondariale pugliese, inoltre, in un primo momento avrebbero ammesso delle «difficoltà» nella gestione del «quadro patologico», ma in un secondo sarebbero tornati in qualche modo sui loro passi, parlando di condizioni di salute complesse ma «discrete», da indagare «con necessaria perizia in tema di verifica della compatibilità tra quadro patologico e detenzione».

Quindi il Tribunale di sorveglianza di Potenza aveva deciso per la sua permanenza in carcere, sotto «monitoraggio» di uno specialista, «anche in ragione della possibile esecuzione di trasferimenti temporanei» in strutture ospedaliere esterne per le cure di cui dovesse avere bisogno.
Di diverso avviso la Cassazione, che ha censurato la “dimenticanza” del Tribunale di sorveglianza su una consulenza di parte prodotta da Viceconte, che attesterebbe l’inumanità della detenzione rispetto alle sue condizioni di salute complessive.


«Il Tribunale, in altre parole – è scritto nella sentenza appena depositata -, ha ritenuto sufficiente la disponibilità dello specialista – omissis – in convenzione presso la struttura detentiva, ma tale aspetto (che rappresenta la condizione minimale di garanzia sanitaria), senza una verifica in concreto della adeguatezza delle terapie praticate e della complessiva incidenza del quadro patologico in termini di rispetto del senso di umanità, non può affatto ritenersi esaustivo».
I giudici di piazza Cavour, inoltre, hanno contestato la mancata considerazione dei rischi specifici collegati alla pandemia da covid 19.
«E’ di intuitiva evidenza – scrivono ancora nella sentenza – l’esistenza di rilevanti patologìe (- omissis – ) che imponevano la verifica delle condizioni epidemiologiche del territorio di attuale allocazione: verifica che non risulta realizzata».


Viceconte era finito in carcere poche ore dopo l’omicidio di Di Silvio, e nel 2017 era stato condannato in via definitiva a 15 anni e 2 mesi di reclusione per omicidio e rissa, con lo sconto di pena di un terzo per la scelta del rito abbreviato.
Stando a quanto ricostruito dai magistrati della Cassazione, che confermarono la condanna nei suoi confronti, tutto sarebbe partito da una lite tra il fratello di Di Silvio e il figlio di Viceconte nelle vicinanze di un noto bar di Lagonegro.
Lo scontro si sarebbe riacceso ed allargato all’arrivo della vittima sul posto per una «spedizione punitiva» contro gli aggressori del fratello. A quel punto Viceconte sarebbe intervenuto in soccorso del figlio e avrebbe ferito a morte con un coltello a serramanico Pasquale Di Silvio, prima di essere raggiunto a sua volta da un colpo di ascia sferrato dal padre della vittima.
In primo grado l’accusa aveva chiesto una condanna a trenta anni per Viceconte, contestandogli anche l’aggravante dei futili motivi determinati da una presunta discriminazione razziale. A causa le origini nomadi della famiglia Di Silvio. Ma il gup Salvatore Bloise aveva escluso la sussistenza dell’aggravante in questione, riducendo la pena inflitta a poco più della metà di quanto richiesto.

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