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L'avvocato Donatello Cimadomo

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POTENZA – La riforma del processo penale disegnata dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia? E’ come pensare a «una Ferrari» per viaggiare sullo sterrato. O al «Frecciarossa da Potenza a Salerno», che alla fine impiega lo stesso tempo di un vecchio treno regionale.

E’ un giudizio disincantato quello sul tema più caldo degli ultimi giorni di Donatello Cimadomo, avvocato potentino e professore associato di procedura penale all’Università di Salerno.

Professore, sta seguendo la discussione sul testo del disegno di legge uscito dal Consiglio dei ministri?

«Credo che ancora una volta il dibattito politico si sovrapponga alla valutazione tecnica del testo. Si formulano critiche sulla base di giudizi preconcetti di tipo politico piuttosto che sulla base di analisi tecniche. E’ quello che sta avvenendo anche col disegno di legge Zan, su cui tanti parlano senza aver nemmeno letto il testo e prendono posizione per ragioni di “fede”. Con la riforma Cartabia è uguale. C’è una stampa favorevole alla riforma Bonafede, e c’è una stampa che invece parte da questa riforma per chiedere una complessiva riforma della magistratura. Ci sono due anime contrapposte. Ma quando si parla di riforme processuali ci dovrebbe essere un sottotitolo immodificabile: sulle garanzie non possono prevalere logiche di schieramento».

A che garanzie si riferisce?

«Nella riforma Cartabia convivono due obiettivi antitetici. Il primo riguarda l’efficienza del processo, che attiene al rapporto tra mezzi impiegati e risultati raggiunti; e il secondo la sua efficacia, che però risente del fatto che non si impiegano nuove risorse, mantenendo l’attuale struttura della macchina della giustizia».

Intende che se manca potenza del motore alzare i limiti di velocità non basta per arrivare prima a destinazione?

«Anche la riforma Bonafede era intervenuta allo stesso modo. Si era inciso su un istituto di diritto sostanziale come la prescrizione, bloccandone il decorso dopo la sentenza di condanna in primo grado. Adesso, poiché il tema della prescrizione del reato è molto sensibile, meglio non parlarne, ma si prevede la improcedibilità e, così, si interviene sui tempi del secondo e terzo grado».

Crede anche lei che sia un’amnistia mascherata dato che in diversi distretti giudiziari difficilmente si riuscirà a rispettare i due anni di durata massima dell’appello e l’anno per la Cassazione?

«Non è un’amnistia perché il legislatore non ha avuto il coraggio di farne una, come pure di intervenire depenalizzando una serie di fattispecie. Perché il vero problema è che la prescrizione di tanti reati interviene già in fase di indagine, anche per la selezione delle notizie di reato per criteri organizzativi. Così, c’è davvero un sistema ad alta velocità ed un altro che arranca. Poi ci sono lungaggini legate alla mancata digitalizzazione dei fascicoli, come la trasmissione degli atti in formato cartaceo tra un ufficio e un altro. Non si ha infine il coraggio di depenalizzare e in sostanza si rimette al capo della procura la valutazione delle indagini che devono andare avanti o meno. Che vuol dire che di solito i furti d’auto verranno trattati dopo le truffe, ma in un contesto in cui i furti raddoppiano verrà fatta una valutazione diversa».

Nel distretto giudiziario lucano saranno tanti i processi che verranno dichiarati improcedibili?

«In un distretto giudiziario come quello della Basilicata in due anni un processo d’appello si celebra sicuramente. Quindi da questo punto di vista non cambia nulla. E’ chiaro, invece, che in distretti più grandi del nostro, fissare il termine dei due anni vuol dire che quei processi sono destinati all’oblio. E’ come se il legislatore mettesse un Frecciarossa sulla Potenza -Foggia o sulla Potenza-Salerno. E’ chiaro che su una vecchia linea non potrà andare tanto veloce. Siamo di fronte, ancora una volta, a una riforma malvestita perché cambia una regola processuale quando il problema è nell’organizzazione della macchina della giustizia, e non va fino in fondo reintroducendo l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione in primo grado. A oggi è difficile persino reperire il testo della riforma, ma se ne continua a parlare. Allora si capisce che è solo un pretesto per fare politica, mentre su temi come questo bisognerebbe mettere d’accordo tutti perché si tratta di garanzie. Nessuno ha interesse a una giustizia che non funzioni».

A suo avviso, l’improcedibilità dei processi che si sono arenati in appello per più di due anni incentiverà strategie mirate ad allungare i tempi del secondo grado, riaprendo il dibattimento?

«E’ vero che la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale viene chiesta dalle parti ma è il giudice che può disporla o no, e può persino disporla d’ufficio quando nessuno la chiede. Si parla sempre di abusi della difesa, ma il presupposto di un abuso è il riconoscimento della legittimità dell’uso principale di uno strumento. In questo caso, comunque, è un po’ come tirare la monetina in aria. Per una riforma che funzioni davvero mi concentrerei sempre sui ritardi che si accumulano in fase d’indagine e sulla possibilità di sindacare la tardiva iscrizione della notizia di reato».

Nel testo della riforma Cartabia si dice che il pm può chiedere il rinvio a giudizio, e il giudice dell’udienza preliminare può concederlo, soltanto quando gli elementi acquisiti consentono una “ragionevole previsione di condanna”. Lei che idea s’è fatto al riguardo?

«Mi pare di capire che a giudizio della commissione Cartabia, che ha elaborato questo testo, abbiamo avuto dei processi avviati con grande probabilità di insuccesso. In udienza preliminare, ad ogni modo, restiamo di fronte a una piattaforma fattuale e probatoria sensibilmente diversa da quella del dibbattimento. Nel primo caso i giochi li conduce in solitaria il pm e il giudice non ha nemmeno un suo autonomo fascicolo. Mentre nel secondo interviene la difesa e l’acquisizione delle prove avviene in contraddittorio. Mi pare di capire che l’idea sia che se il gup valuta più approfonditamente avremo meno processi. Ma non si può neanche trasformare l’udienza preliminare in un quarto grado di giudizio. Allora piuttosto che condizionare i criteri di valutazione del giudice mi chiedo se non sia meglio controllare in maniera più opportuna l’operato del pm. Faccio un esempio. Se non si vigila in concreto sulla tempestività nell’esercizio del potere di iscrizione delle notizie di reato da parte del pm, che oggi è insindacabile, è ovvio che ci sarà una dilatazione nella durata delle indagini. Perché è proprio dall’iscrizione che iniziano a decorrere i termini previsti. Peraltro rafforzando una valutazione intermedia, come quella che avviene in udienza preliminare, sarà sempre più difficile coltivare il dubbio per chi è chiamato, successivamente, a decidere tra assoluzione e colpevolezza. Insomma, si lanciano pietre nello stagno senza governarne gli effetti».

Abbiamo un problema?

«Si sta sostituendo la prescrizione con l’improcedibilità del processo. Allora mi chiedo: se uno è stato condannato in primo grado e il processo è stato dichiarato improcedibile in appello, decorsi i due anni previsti, il reato è vivo o è morto? Sotto il profilo sostanziale quella sentenza di primo grado cos’è? La parte civile può ottenere il risarcimento o no? Per analogia con la prescrizione in appello immagino che le statuizioni civili siano fatte salve. Se il problema è che la Cassazione esplode, e le Corti d’appello esplodono, forse era davvero meglio intervenire sui carichi depenalizzando una serie di fattispecie».

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