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Il centro oli di Viggiano

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POTENZA – Il petrolio non è più ben visto in società e la Basilicata dovrebbe cominciare a interrogarsi in merito. Non parliamo solo dell’opinione pubblica internazionale che da tempo, e non solo fra gli ecologisti, si è resa conto di quanto gli idrocarburi liquidi siano un problema ambientale gigantesco. In questo caso il termine “società” non vale solo “comunità” ma anche “azienda”, nello specifico azienda che si occupa di estrarre e vendere petrolio e derivati.

Anche per le multinazionali gestire il greggio sta diventando un affare difficile: è come il figlio scapestrato e dunque impresentabile di una famiglia nobiliare dell’Ottocento. Figlio però fino a quel momento esibito perché, evidentemente, prima gli scapestrati piacevano molto.

Fuor di metafora, come scriveva Ettore Livini nel suo pezzo del 2 ottobre sulla nuova piattaforma editoriale “Green & Blue”, «le Borse mondiali archiviano – in netto anticipo rispetto all’economia reale – l’epopea miliardaria del petrolio».

Le azioni delle maggiori compagnie petrolifere calano senza sosta. A Piazza Affari i titoli di molte società del settore toccano a ogni chiusura un nuovo fondo.
Le grandi società del settore cercano di correre ai ripari annunciando urbi et orbi che il loro futuro sarà sempre più verde, che le energie pulite sono la scommessa non del domani ma già dell’oggi. Facendo intendere che quel cattivone del petrolio man mano sparirà come cimelio del passato.

Basta vedere le pubblicità ad esempio dell’Eni, fra svolazzi di farfalle e rami frondosi che vogliono esprimere la vicinanza della compagnia a chi è più attento all’ambiente.

Si tratta ovviamente di una necessità da parte delle multinazionali: il New York Times ha pubblicato un articolo a firma di Stanley Reed intitolato “Le grandi compagnie petrolifere europee stanno diventando elettriche”.

«Spinte da governi e investitori per affrontare le preoccupazioni del cambiamento climatico sui loro prodotti – spiega Reed – le compagnie petrolifere europee stanno accelerando la loro produzione di energia più pulita (solitamente elettricità, a volte idrogeno) e promuovendo il gas naturale, che secondo loro può essere un combustibile più pulito per la transizione dal carbone e dal petrolio al energie rinnovabili».

E più avanti: «Per alcuni dirigenti, l’improvviso calo della domanda di petrolio causato dalla pandemia – e il conseguente crollo degli utili – è un altro avvertimento che, a meno che non cambino la composizione delle loro attività, rischiano di essere dinosauri in via di estinzione».

Il primo a parlare con il cronista del maggiore quotidiano del mondo è Claudio Descalzi, che dichiara, a conclusione di un ragionamento sul crollo della domanda di petrolio dovuto alla pandemia: «Vogliamo stare lontani dalla volatilità e dall’incertezza».

Il greggio, modello un tempo di economia fin troppo concreta (come gli sversamenti di petrolio in mare ci hanno drammaticamente insegnato), diventa sinonimo di “volatilità” e “incertezza”. Nell’ottica della cosiddetta “transizione energetica”.

Lo spiega in maniera molto efficace Livini nel suo articolo: «L’onda verde degli investimenti responsabili ha convinto i grandi fondi a vendere in meno di un decennio 14mila miliardi di dollari di titoli legati ai carburanti fossili, le rinnovabili stanno conquistando rapidamente quote di mercato. E i vecchi re di Wall Street hanno perso la corona».

Sullo stesso sito web di Eni si può ricavare il grafico del suo valore azionario da metà anni Novanta a oggi. Giunto al suo massimo storico nel 2008 di 28,33 euro ad azione, all’ultimo listino era a 6,50 euro.

Insomma, trattare petrolio vuol dire presentarsi a Piazza Affari con le dita macchiate di nero. E’ una tendenza generale, legata sostanzialmente alle paure per i cambiamenti climatici e all’idea di responsabilità aziendale.

Addirittura da parte degli organi di gestione dello stesso Fondo Sovrano Norvegese si chiede maggiore trasparenza sull’impronta ambientale degli investimenti. Il Fsn è il più ciclopico fondo d’investimento (pubblico) del pianeta: 1,2 miliardi di miliardi di dollari. Si tratta del reinvestimento dei soldi del petrolio che, da quando è stato scoperto nel proprio mare, ha trasformato la Norvegia da povero Paese di pescatori in potenza economica e finanziaria mondiale.

Eppure, nonostante i plurimi benefici che ne vengono ai cittadini norvegesi (uno stato sociale da far invidia a chiunque, una nazione che funziona come un orologio di precisione, un livello pensionistico che non ha eguali), i gestori del Fsn vogliono ridurre la sua impronta ecologica (pari a 107,6 milioni di tonnellate di Co2) chiedendo – come raccontava il sito specializzato Rinnovabili.it il 4 settembre scorso – alle società nel suo portafoglio la maggiore trasparenza possibile sulle loro politiche climatiche.

E in tutto questo, la Basilicata? E’ facile immaginare che questo scenario comprenda in qualche modo anche la regione più petrolifera d’Italia, la terra che ha sempre vantato i maggiori giacimenti su terraferma d’Europa.

Le decisioni di Eni e poi di Total e della Shell in materia avrebbero un notevole impatto sulla tenuta economica della Basilicata.

Vari gli scenari possibili. Il primo è che le compagnie tirino realmente i remi in barca entro pochi anni decidendo di ridurre al minimo le attività petrolifere sul territorio lucano.

I soldi delle royalty sparirebbero o quasi. Poco male se nel frattempo l’ente Regione riuscisse davvero a rendere indipendente il bilancio lucano dai soldi del petrolio. Cosa che fino a ora non è stata: le royalty sono state addirittura usate per tappare i buchi nella sanità, insomma per la spesa ordinaria e non per grandi investimenti che potessero fruttare l’autonomia dalle trivelle.

Secondo scenario: le compagnie continuano a pompare su dalle viscere del sottosuolo lucano greggio e gas ma, non essendo più un’attività così chic nel salotto ambientale del mondo, ne farebbero un’attività da tenere nascosta. Come mettere la polvere sotto al tappeto. Dunque addio a tutte le promesse di collaborazione, di finanziamenti, di miglioramenti dal punto di vista della sicurezza e della salute umana. Campi petroliferi e centri oli diverrebbero attività residuali dal punto di vista promozionale ma effettive per chi ne sopporterebbe le conseguenze ambientali.

Terzo scenario: le compagnie decidono finalmente di riconoscere alla Basilicata il peso sopportato negli anni (per ingrossare i loro profitti) e di proseguire in un percorso comune, non più nel segno del petrolio ma nelle energie pulite. Scenario che, dati i trascorsi, appare per lo più utopistico.

Cosa resta da fare alla Basilicata? Di sicuro, pensare. Come fece a suo tempo la Norvegia, bisognerebbe mettere insieme istituzioni, sindacati, aziende (e cittadini, in qualche forma organizzata) e pensare – ma pensare davvero, a lungo, confrontandosi senza retorica e senza risparmiarsi – a un futuro senza più il petrolio. Un futuro che sta diventando rapidamente presente. E in cui i magici tesoretti dell’ex oro nero – diventato nel frattempo vergogna nera – non arriveranno più a salvare le casse della Basilicata.

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