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L'ex pm potentino Francesco Basentini

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POTENZA – A propiziare l’incarico dell’ex pm potentino Francesco Basentini alla guida del Dipartimento amministrazione penitenziaria sarebbe stata la sua firma sull’indagine Tempa Rossa, che nel 2016 ha portato alle dimissioni del ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi.

E’ arrivata per bocca dell’ex premier Matteo Renzi l’ultima rivelazione – quasi certamente non ancora definitiva – sul “caso” Basentini, ormai sempre più al centro del programma di Massimo Giletti, Non è l’arena, e della sua campagna contro il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede.

Il fondatore di Italia viva, che in questi giorni sta promuovendo il suo ultimo libro, ha voluto dire la sua in questo modo sulle ombre – più o meno reali – che vengono agitate la figura di Basentini, dimessosi agli inizi di maggio dalla guida del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Un passo indietro eclatante, quello di Basentini, dopo le polemiche sulla scarcerazione di qualche centinaio di detenuti decisa per motivi sanitari dai tribunali di sorveglianza di mezza Italia, nel pieno dell’emergenza covid 19

Per l’ex premier, quindi, a indirizzare la scelta di Bonafede sull’ex pm potentino, nel 2018, non sarebbero stati i boss mafiosi intercettati in carcere, mentre sparlavano della possibile nomina in sua vece del pm palermitano Nino Di Matteo. Come insinuato proprio da quest’ultimo. Né il finto cugino Roberto Speranza, che all’epoca era ancora molto lontano dal ministero della Salute e sedeva tra gli scranni dell’opposizione al governo M5s – Lega, o l’amico – vice capo di gabinetto del ministro della Giustizia, Leonardo Pucci. E neppure l’ex capo dell’Anm Luca Palamara o l’ex boss dei basilischi, Antonio Cossidente, imparentato col suocero.

«Più che chiedersi perché a capo del Dap non sia stato scelto Di Matteo, andrebbe approfondito perché è stato scelto Basentini». Ha dichiarato Renzi. «In magistratura ci sono tante brave persone, magari lo sarà anche lui, ma il suo merito per quella maggioranza che lo scelse, fu quell’inchiesta fuffa, tra marzo e aprile 2016 credo, alla Procura di Potenza su Tempa Rossa, che sostanzialmente vide interrogati mezzo governo di allora e indagati ministri durante la campagna per il referendum sulle trivelle».

Quindi l’affondo: «quell’inchiesta non è arrivata a nulla, nemmeno in fase di indagine – ha aggiunto l’ex sindaco di Firenze -, ma ha prodotto le dimissioni della bravissima Federica Guidi, la diffusione illegittima di intercettazioni privatissime che non c’entravano niente con l’inchiesta e un danno di immagine. Non per Basentini».
Peccato, però, che non sia proprio così.

A finire in archivio, infatti, è stata solo la parte dell’inchiesta stralciata per competenza a Roma, su cui i pm della capitale non hanno voluto effettuare nemmeno una delega d’indagine.

A Potenza, invece, c’è già stata la condanna in primo grado a 3 anni di reclusione, col rito abbreviato, per corruzione per un imprenditore come il patron della materana Sudelettra, Lorenzo Marsilio, imputato in concorso con l’ex sindaca di Corleto Rosaria Vicino. Mentre una decina di altre persone restano imputate nel processo Eni – Tempa rossa, che la prossima settimana dovrebbe dividersi in due per ripartire in maniera più spedita dopo l’estate.

Tra queste, ovviamente, l’ex sindaca, che nel 2014 aveva ricevuto nel suo ufficio il compagno imprenditore dell’allora ministra Guidi, Gianluca Gemelli. Lui interessato ad entrare nelle commesse del progetto di estrazioni petrolifere di Total, e lei al governo, che lo informava sull’iter delle ultime autorizzazioni necessarie alla compagnia. Questo il tenore del dialogo intercettato tra i due che ha indirizzato l’attenzione degli inquirenti potentini verso quelle dinamiche romane. Un’attenzione evidentemente sgradita che è costata all’ex pm potentino attacchi veementi dei renziani in Parlamento, a ben vedere, fin dal giorno del suo insediamento al Dap.

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