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Giulia ha scelto il Cilento e studia il Mezzogiorno delle tradizioni e della tavola. Antropologa come Laura: dal distretto friuliano del San Daniele a quello del Cirò. La famiglia che ha trovato la Toscana nel Vulture e la piemontese che ha seguito il marito tra i bergamotti dell’Amendolea

di EUGENIO FURIA

ALTRO che fuga dei cervelli e disoccupazione femminile al top, ecco tre storie (in rosa) sul Sud che attrae: con la loro scelta non certo comune, Giulia, Cecilia e Laura raccontano tre inediti casi di emigrazione al contrario, tutti legati all’enogastronomia e al territorio. Età e provenienze diversissime ma voglia di superare, proprio grazie al miracolo di questa terra, i piccoli e grandi ostacoli che pure esistono.

Per dirla con Gaetano Cappelli, la “Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo” potrebbe benissimo essere raccontata da Cecilia Naldoni, in un modo unico: con il marito Fabrizio Piccin ha deciso di cedere la quota dell’azienda Salcheto a Montepulciano per creare Grifalco a Venosa. «Sì, ma dopo più di dieci anni qui veniamo avvertiti ancora come “forestieri”», sorride Cecilia. Differenze con la Toscana? «La differenza è sostanziale. Per avere la linea telefonica abbiamo dovuto aspettare due anni, e per ottenere quello che è un diritto spesso devi chiedere il favore. Le difficoltà permangono anche oggi. Anzitutto c’è un problema logistico, penso alle infrastrutture, settore nel quale il divario è enorme: pensi che un tempo i corrieri non si avventuravano fin qui e ci davano appuntamento a Napoli. Devo dire che con gli anni, aumentando le aziende e crescendo l’economia legata al vino con l’attenzione per l’Aglianico, le cose sono un po’ migliorate. Certo, la Potenza-Melfi resta una strada terrificante…». Per restare in ambito enologico, il bicchiere è mezzo pieno, dunque, mentre senza mezze misure è la definizione di questo Sud: «Una meraviglia. Il lavoro, la terra e la vita nelle vigne mi ricordano la Toscana di cinquant’anni fa. Qui ritrovo il senso della vita rurale vera, prima del trionfo del marketing». È l’oleografia di certa Toscana che Cecilia definisce «da documentario» e che invece il Vulture riesce ancora a tenere lontana. Un deficit di cui la Basilicata dovrebbe disfarsi? «Senza dubbio il non voler fare gruppo. Perché non prendiamo spunto da quanto fanno già Puglia e Sicilia, spesso anche per finta?». Oggi l’azienda s’è ritagliata una nicchia importante nella fascia alta anche se «vendiamo più all’estero che a Milano», dice Cecilia, ma nelle sue parole non ci sono né rimorsi né rimpianti o ripensamenti. Il marito Fabrizio, alla rivista Lavinium ha spiegato che «in Toscana il vino non si fa più come lo intendiamo noi, non condividiamo la direzione che ha preso, abbiamo un modo di vedere le cose completamente diverso»: di qui i primi esperimenti («mi sono divertito a fare un po’ di allenamento con l’aglianico portato dal Vulture, non sono arrivato del tutto impreparato, avevo già fatto un po’ di prove di vinificazione e affinamento») per poi scoprire che aglianico e sangiovese «per alcuni aspetti non sono poi così diversi. Queste terre e questi vigneti li conoscevo già, sono andato a colpo sicuro». Grifalco ha iniziato a vinificare nel 2003, la prima vendemmia risale al 2004.

Nel 2012, invece, la 26enne milanese («da nove generazioni») Giulia Ubaldi dopo gli studi a Siena ha scelto il Cilento come buen retiro, anche se al momento confessa di attraversare uno stato d’infatuazione per la Basilicata e Pisticci in particolare: «Non è detto che non mi ci trasferisca…». Benché si definisca “cilentofila”, non sarebbe il primo passaggio in terra lucana: i suoi studi – poi raccolti in libri come “100 volte Mezzogiorno” o articoli sul web e riviste divulgative del calibro di Vanity FairEspresso e Cucina Italiana – riguardano le tradizioni, i paesi abbandonati, ma soprattutto i riti e la tavola, con riferimento alla Dieta mediterranea. Frequenta il Master in Comunicazione multimediale dell’enogastronomia all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli ma appena può scappa ancora più a Sud della Campania, armata di reflex e taccuino. Nella sua seconda vita, Giulia ha anche coltivato lo zafferano a gestito un B&B dov’è arrivata gente da Cina, New York, Canada e Israele. «Il mio incontro con il Cilento, nel 2012, è stato imprevisto, non sapevo neanche che esistesse. Sono arrivata di notte ad Aquara con un’amica per passare l’estate: suo nonno è nato lì. Al risveglio ho avuto un’epifania. Mentre lei studiava io ho iniziato a girare in lungo e in largo». Una rivisitazione motorizzata dei viaggiatori del Grand Tour, tra le grotte di Felitto e Castelcivita e Roscigno Vecchia. «E’ stato qui, lo ricordo distintamente, che ho pensato: io vivrò in Cilento, davvero. Non è stato un fatto di energia o amore, ma un legame quasi terreno, come un senso di appartenenza, che ho provato di recente anche a Pisticci. A proposito, perché le Lamie non sono famose quanto i Sassi di Matera e i Trulli di Alberobello?». Da antropologa, Giulia s’immerge nei luoghi che visita con un approccio che va oltre la “fruizione” legata ai mesi estivi: «Ma a me piace d’inverno!, ripeto quando mi fanno notare che i centri costieri ad agosto sono ancora più belli». Nella primavera 2013 torna in questo lembo di Campania («che per me è tutt’uno con la Basilicata: ma perché non si fa la macroregione?») per la sua tesi sui paesi abbandonati: un censimento casa per casa che, dopo la fisiologica ritrosia dei più anziani nei confronti della “forestiera”, la vede contesa dalla popolazione. «Sono stata come risucchiata ed entrata nelle loro vite, forse in modo poco professionale, ma ho avuto conferma che qui gli steccati non esistono: tutti mi invitavano a pranzo ed era strano per me che, quando chiedevo in prestito un uovo dalla vicina di casa a Milano, mi sentivo rispondere con l’orario a cui restituirlo». «La mia formazione e il mio lavoro mi consentono di capire davvero un posto vivendolo: non puoi pensare di conoscerlo dopo un mese di vacanza».

E un’antropologa prestata alla terra è anche Laura Violino: laureata a Padova con una tesi dedicata alla musica popolare della Pasqua calabrese, è nata a San Daniele, la città in provincia di Udine il cui nome è sinonimo in tutto il mondo di prosciutto crudo. Da cinque anni vive a Cirò con il marito Francesco Maria De Franco (enologo dell’azienda pluripremiata “A Vita” il cui Gaglioppo biologico figlio del vitigno paterno è finito persino sul New York Times) e il figlio. «Ho seguito Francesco con un po’ d’incoscienza – racconta – e mi sono ritrovata in un posto che è distante dal Friuli più di quanto lo sia l’Inghilterra: il Crotonese racchiude in sé tutte le contraddizioni dell’Italia. Il contesto sociale non è dei migliori ma le difficoltà ci sono in tutta Italia, noi come azienda siamo molto fortunati. La forza della natura mi tiene qui e mi riappacifica, e poi vivendoci capisci cose che al Nord fanno fatica a capire, cadendo in giudizi affrettati». Come Cecilia, anche Laura lamenta l’assenza di collaborazione tra produttori: «Il rischio individualismo e diffidenza è alto, eppure siamo nella zona delle lotte contadine per la terra negli anni cinquanta. Devo dire che troviamo più sponda nelle tante fiere a cui partecipiamo incontrando aziende di tutte le regioni. Ma siamo felici. Il nostro motto è: una palma nel deserto si vede…».
Storie di donne “emigrate” al Sud per amore, come la piemontese Tiziana Sergi che ha seguito il marito Ugo, ex avvocato di Condofuri che ha lasciato Milano per dedicarsi all’agriturismo sulla vallata reggina dell’Amendolea, tra bergamotti e parlata grecanica. 
Tutte storie che sfuggono alle statistiche eppure raccontano un Sud diverso e seducente.

e.furia@luedi.it

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