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Savino Tampanella mostra la tenda elettroschermante

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A Venosa un giovane elettrosensibile: pc, cellulari ed elettrodomestici gli fanno male. Da dieci anni dorme in un casolare isolato in campagna. Chiede un lavoro qualsiasi «per una vita quasi normale»

VENOSA (Potenza) – Può il singolo caso di un singolo individuo – come quello di Savino Tampanella, l’uomo incompatibile con una società basata sull’energia elettrica, costretto a vivere da reietto senza volerlo – interrogare l’intera umanità, metterla spalle al muro alle prese con la propria coscienza?

La risposta è sì, per diversi motivi: Savino ha una patologia da cui non può guarire e che lo obbliga a fuggire l’intero consorzio civile. E già questo basterebbe. Ma il problema di fondo è che forse è il consorzio civile a non poter guarire dalla propria malattia, la dipendenza sempre più stretta dall’elettricità e dunque la sua diffusione nell’etere sempre più pervasiva, invadente, onnipresente.

L’umanità però non ha una coscienza unica, e dunque il problema in questi termini non si può porre. E la storia di Savino va raccontata per bene. Con una premessa doverosa: la malattia di Savino non ha un riconoscimento unanime nel mondo. Non la riconosce la comunità scientifica né l’Organizzazione mondiale della sanità. Il governo svedese la considera causa di invalidità funzionale. In Spagna un tribunale l’ha considerata “malattia professionale” per un lavoratore del settore elettrico. Pochi casi, scarsa accettazione globale. Questo per dire che per ora non c’è unanimità sull’esistenza dell’elettrosensibilità.

Nato a Venosa quasi quarant’anni fa, nel 2008 Savino è a Roma, laureato in Sociologia e criminologia. Per chi pensa che esista un destino, e che abbia il diritto di accanirsi fino a un certo punto contro le persone, Savino aveva già dato negli anni precedenti: una brutta ustione alla mano e difficili problemi di salute, però superati. Fa mille lavori e lavoretti, retaggio di quando si pagava gli studi universitari. Il suo sogno è entrare nei servizi segreti. Affronta anche i primi passi di un concorso da commissario in polizia, il cui iter sarà poi bruscamente interrotto.

«Per tenere contenti i miei – racconta oggi, in una piccola stanza opportunamente schermata per evitare che i campi elettromagnetici, per lui fonte di malesseri di ogni  tipo, restino fuori dalle quattro mura – chiedo e ottengo il posto fisso in una società: cercavano persone che sapessero l’inglese e conoscessero i computer».

Savino lavora circondato da pc, con un paio di cuffie perennemente infilate nelle orecchie. Dopo qualche settimana cominciano i problemi: «Divento rosso – spiega – soffro di forti acufeni (rumori nei canali uditivi, ndr), difficoltà a vedere, anomie e afonie del linguaggio (difficoltà a trovare i termini esatti con cui esprimersi e incapacità totale di produrre suoni con la voce, ndr). La dottoressa che lo visita, nella Capitale, gli parla di stress da lavoro. E la diagnosi ha un suo perché: di sera, una volta uscito dall’ufficio, Savino gestisce un ristorante.

I sintomi non regrediscono, tutt’altro: Savino un giorno sviene. Portato al pronto soccorso, non gli viene riscontrato nulla di particolare. Passa qualche giorno a casa, e sta meglio. Torna al lavoro e si ripresentano i problemi.

Come se questa coincidenza gli avesse messo una pulce nell’orecchio, su Google cerca e trova questa parola: elettrosensibilità. Nel frattempo i sintomi si aggravano: difficoltà a camminare, a coordinare i movimenti e addirittura ad alzarsi dal letto, stanchezza costante, crisi epilettiche.

Savino lascia il lavoro. La situazione sembra migliorare. Ma una notte si addormenta con il cellulare nel letto. Si sveglia madido di sudore, con le palpitazioni. Sono tanti i dottori che avranno a che fare con Savino. Molti gli diranno che è tutta suggestione, che deve prendere i fiori di Bach, che ha uno choc emotivo. (Aneddoto: una dottoressa gli dice: non hai niente. Lui risponde: ok, ma spenga il cellulare, per favore, che mi dà fastidio. Lei replica: ma che dici? Il mio cellulare è spento. E, in quel momento, squilla).

A dargli il verdetto sarà un medico considerato, per l’arco della sua vita, un faro per gli elettrosensibili e per i portatori di altre malattie rare: Giuseppe Genovesi, specialista in Endocrinologia e Malattie metaboliche, psichiatra, immunologo-allergologo e ricercatore di Medicina sperimentale al Policlinico Umberto I dell’Università di Roma, titolare della cattedra in Endocrinologia. Insomma, non un santone, ma un luminare però spesso accompagnato da critiche e provvedimenti per le sue posizioni sui vaccini e le battaglie anticonformiste sulle malattie croniche di origine ambientale.

E’ Genovesi a confermare a Savino: tu sei un elettrosensibile. E da quel momento comincia la vita da transfuga della società. Si sente come potrebbe sentirsi un palloncino in una serra di cactus: ogni angolo è un pericolo.

Addio computer. Addio cellulari. Ma non solo: a creare problemi è anche il frigorifero. E’ anche il forno a microonde. E’ anche la tv, quella datata a tubo catodico e quella smart che oggi va per la maggiore. E pure una lampadina.

«Una semplicissima lampadina a basso consumo – spiega – per me è devastante».

Sono tutte sorgenti di campi elettromagnetici. E sono quelle – dice – a far impazzire le cellule del suo corpo.

Dove andare per sfuggire al mondo? Dopo una ricerca affannosa, è un amico di famiglia a concedergli ospitalità in un piccolo stabile disperso nelle campagne venosine. Non è sormontato dalle linee elettriche, non ci sono fonti di campi elettromagnetici.

E la giornata-tipo di Savino è diventata questa: svaglia dal divanetto in cui dorme, solo come nessuno, avvolto nelle coperte per difendersi dal freddo, a volte terribile, di questo suo riparo di fortuna. A una certa ora va a casa dei suoi genitori (che vivono la condizione del figlio con comprensibile angoscia). Qui ha una stanzetta adattata alla bisogna: alle pareti una vernice isolante, ai vetri tende speciali, metariali isolanti anche sotto al parquet.

Savino fa due passi con l’adorata Sasha, bellissimo pastore tedesco. Torna su e mangia. Nel pomeriggio, torna nel ritiro in campagna. Qui s’immerge in una tinozza di acqua e sale («Mi hanno spiegato che riesce a scaricarmi dall’elettromagnetismo accumulato, ed è vero») e, con qualunque temperatura ambientale, ci passa due ore. Tre volte alla settimana si sottopone alla fleboclisi con un antiossidante epatoprotettivo.

Poi, di nuovo dai suoi a cenare. Infine, ritorno in campagna per due nuove, non proprio entusiasmanti ore nell’acqua e sale. E il sonno, solo e al freddo. A volte lui e la fidanzata Alessandra si concedono una pizza e una passeggiata. «Ma quando i locali cominciano ad affollarsi – racconta – sento forte i campi elettromagnetici che si intersecano nella mia testa, nel mio corpo. E devo fuggire via».

In questa esistenza da anacoreta, alle prese da dieci anni con i manuali delle sostanze isolanti e con la solitudine, qualche soddisfazione c’è stata. Una gliel’ha data la Regione Basilicata: il 15 ottobre del 2013 la giunta, presieduta dall’allora presidente Vito De Filippo, ha riconosciuto l’elettrosensibilità come malattia rara (codice Rqg020) alla pari della assai più nota sindrome di Tourette, della sindrome sistemica da allergia al nichel e della cisti di Tarlov. Unica regione in Italia ad averlo fatto e, in effetti, forse unica istituzione al mondo. Ad averla chiesta e anzi pretesa, proprio l’elettrosensibile di Venosa. Per lui significa medicine rimborsate.

Savino non è un eremita per vocazione. «Io non ho l’inclinazione a stare solo – sottolinea – anzi, sono una animale sociale. Vorrei stare sempre in mezzo a tanta, tanta gente. Non posso farlo e non potrò farlo mai. Ma almeno vorrei avere la possibilità di un’esistenza migliore».

Primo presupposto: una casa. Savino ha individuato un terreno su cui costruirla, lontano – ma non del tutto: ci sono le onde di radar anche lontani che spazzano l’area – da fonti pericolose. Mancano i soldi. «Il sindaco di Venosa, Tommaso Gammone – dichiara – mi ha già riconosciuto un aiuto, piccolo ma per me simbolicamente importantissimo. Devo dire che mi è stato sempre vicino e quando sono stato uno “stalker” con la Regione Basilicata lui mi ha sempre accompagnato e aiutato. Ma ho bisogno di altro. Ho bisogno di un lavoro».

Ed eccoci arrivati, fatalmente, al punto in cui la società – quella che all’inizio abbiamo detto essere in debito con Savino per il suo ruolo di carnefice – potrebbe sdebitarsi: trovandogli un’occupazione.

«Un lavoro qualunque – dice – Certo, non con il cellulare in mano e non per dodici ore di seguito. Oltre un certo tempo per strada e nel traffico devo scaricarmi per non stare malissimo. Ma sono davvero disposto a fare di tutto e a farlo bene e con passione. Chiedo solo di essere messo alla prova. E’ l’unica cosa che davvero vorrei in questa vita crudele. Altrimenti compirò qualche gesto clamoroso. Magari mi lego a un ripetitore e ci muoio sopra, per dimostrare che è tutto vero ai tanti medici che non mi hanno creduto».

Alessandra lo guarda, nella piccola stanza-esilio. Dietro il sorriso, amarezza e preoccupazione. E il sogno comune – che solo un datore di lavoro potrebbe realizzare – di una vita normale. Meglio: quasi normale.

ROCCO PEZZANO

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