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Ilaria d'Auria al lavoro dalla sua abitazione di Maratea, dove è tornata dopo una parentesi a Bruxelles

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POTENZA – Tornare a casa. Non con le pive nel sacco, non per abbandono, non per resa. Tornare a casa e continuare a svolgere il lavoro che si ama o che comunque si fa, dalla propria terra, grazie alla tecnologia delle cui possibilità la pandemia ci ha resi nostro malgrado più consapevoli. Un ritorno senza dolore.

E’ la filosofia del southworker, che torna a sud (il “suo” sud) e non abbandona i propri sogni ma li persegue dal luogo del cuore. Come Ilaria d’Auria (proprio così, con la “d” minuscola), nata a Lauria 37 anni fa, 20 dei quali lontano dalla Basilicata. E’ il suo secondo tentativo di trasferirsi nella regione d’origine, come racconta: è proprio d’Auria a spiegarci la filosofia del southworking e le opportunità che apre per tanti.

Ci può spiegare in maniera semplice cosa sia il southworking?

«Southworking significa “lavorare dal Sud”, in inglese. Descrive il fenomeno che ha portato centomila lavoratori dipendenti e studenti fuori sede a trasferirsi nel Meridione (stima dello Svimez) trasformando l’obbligo del telelavoro legato alla pandemia in opportunità per ritornare nei luoghi di origine. È una forma di nomadismo digitale, un’emigrazione al contrario fatta per scelta piuttosto che per necessità. Nel mio caso, significa che il mio lavoro di lobbying e progettazione europea nel settore della ricerca e dell’innovazione viene svolto da Maratea, piuttosto che da Bruxelles».

Quando e perché ha preso in considerazione l’idea di aderire a questa filosofia di vita e di lavoro?

«Il tema del ritorno accompagna spesso la vita dei fuori sede: la nostra vita è in bilico tra dimensioni che sembrano impossibili da mettere insieme, come per esempio il lavoro e il Sud, o gli affetti e la prossimità. La pandemia, nel mio caso, ha dato un’accelerata a un desiderio che è emerso a fasi alterne da quando ho finito l’università: quello di lavorare per e nella mia terra d’origine, la Basilicata. Visto che non è stata data continuità al mio lavoro per la candidatura di Matera a Capitale europea della Cultura per il 2019, sono dovuta tornare a Bruxelles. Mi considero fortunata, perché sono riuscita a trovare un lavoro che amo e che mi permette di lavorare a stretto contatto con oltre centoventi autorità regionali, tra cui anche la Basilicata. Più conosco le realtà regionali in Europa, più vedo il potenziale inespresso della Basilicata: e vorrei riportare le mie competenze, insieme ad uno sguardo fresco, di nuovo a casa».

Quanto ha contato l’obbligo al lavoro a distanza dettato dal coronavirus?

«Il lockdown ha reso invisibili le ragioni per cui vivere in una città come Bruxelles avesse senso. A ottobre, entrambi i miei genitori hanno avuto il Covid-19: mia madre, positiva, è rimasta sola, e mio padre è stato ricoverato. Il sentimento di impotenza e di fragilità è stato sconvolgente. Nel 2020, ho perso diverse persone che avevano meno di 50 anni. Tutto cio mi ha portato a chiedermi: “Se dovessi morire adesso, sarei felice?” e a guardare con altri occhi le scelte che ho fatto nella mia vita. Ho preso un biglietto di sola andata e sono approdata prima a Matera, poi a Maratea. Grazie alle condizioni esterne, sono riuscita a mettere insieme quel che prima era sempre vissuto in alternanza: quello che prima era esclusivo (o/o) è diventato inclusivo (e/e). È una scelta intima, personale, spesso vista con preoccupazione perché c’è sicuramente una possibilità che questa scelta sia un salto nel vuoto».

Lei ha visto la Basilicata (e l’Italia) per molti anni da fuori. Com’è ora ritrovarsi dentro il nostro Paese (e la nostra regione)?

«Sono sempre stata “forestiera” agli occhi degli altri, in tutti i posti in cui sono approdata. Ho vissuto in sette paesi e in molte più città. Ma essere nomade non significa non avere o non cercare radici, anzi. Le mie radici sono in Basilicata. È stato l’unico posto stabile della mia vita, la roccaforte della famiglia, il luogo dell’anima in cui approdare e rigenerarsi. La differenza tra il mio essere “forestiera” in altri posti ed esserlo qui è che la Basilicata la conosco da fuori, da dentro, da sempre. Sicuramente non vedo le stesse cose che vedono le persone che ci sono nate e cresciute, ma è cosi in ogni posto in cui vado. Continuo a vedere nella Basilicata cio che vedevo quando mi sono trasferita qui lavorare alla candidatura di Matera a Capitale europea della Cultura: il potenziale inespresso di questa regione. Mentre prima, per rimanere, avevo bisogno di un lavoro, adesso il lavoro ce l’ho e mi permette di rimanere in Basilicata. Per il momento. Il mio rammarico è di non poter lavorare dal Sud, per il Sud. So quanto io, come tanti altri che sono tornati o vorrebbero farlo, potrebbero dare a questa terra».

Dal momento che molti scelgono di lavorare da casa propria anche altrove (nord Italia, altri Paesi) perché calcare il senso sulla parola “south”? Bisogna escludere dalle opportunità di “lavoro agile da presidi di comunità” chi ha deciso di vivere in Umbria o in Liguria?

«Lavorare dal Sud è una forma di nomadismo digitale che sottolinea il tema del Meridione per tutto cio che evoca, a maggior ragione quando uno pensa ai giovani e al lavoro. Se il nomade digitale viaggia in giro per il mondo, il “southworker” è spinto dal desiderio di tornare alle proprie origini, ai propri affetti. Per quel che mi riguarda, spero di lavorare dal Sud, per il Sud. Ogni “southworker” ha un proprio percorso, ma siamo tutti accomunati dal desiderio – non retorico – di tornare sui nostri passi, per poi forse, eventualmente, ripartire. Per scelta, non per necessità. Calcare il senso sulla parola “south” è utile per attirare l’attenzione su un fenomeno che inverte la tendenza dell’emigrazione – considerata quasi inevitabile – verso il nord o all’estero per ragioni professionali. D’altronde lo mostrano i fatti: il “southworking” non è un fenomeno mediatico, ma un’associazione sostenuta da un movimento di opinione. L’associazione “Southworking – lavorare dal sud” è un marchio registrato che ha stabilito collaborazioni con la Fondazione per il Sud e lo Svimez, e ha aperto il dialogo con il governo nazionale».

Non le sembra che, paradossalmente, alcune definizioni ed etichette, alcuni linguaggi che potremmo definire “da iniziati” siano il contrario dell’inclusività? Espressioni come “hub”, “co-working” eccetera – spesso usate da chi si occupa di questi temi – rappresentano non il linguaggio di chi si apre a tutti ma un segno di appartenenza per pochi.

«Mi occupo di innovazione – sia tecnologica che sociale – da oltre otto anni. So quanto contano le parole, ed è vero che il vocabolario associato a molti processi sembri astratto. Per esempio, vengono usati molti inglesismi (hub, smartworking, co-living, co-working) per descrivere delle realtà precise: questo le rende estranee a chi non ne conosce il significato. Quando sento parlare di “co-living” o “co-working” mi viene in mente un mio caro amico la cui casa è sempre aperta: accoglie persone per periodi più o meno lunghi e inevitabilmente si lavora, si mangia e si sta insieme condividendo gli spazi comuni. Per lui, si chiama ospitalità: anche perché non percepisce un introito da questa generosità. È vecchia come il mondo, e non c’è bisogno di dargli un termine inglese. La realtà è un po’ più complessa, ovviamente: organizzare un “co-living” o gestire un “co-working” è un servizio, e puo diventare un lavoro. È utile ricordarsi che le cose si possono raccontare con parole semplici, a maggior raigone se fanno leva su valori come la collaborazione, lo scambio o la condivisione. Credo comunque che stiano emergendo dei processi fluidi, ibridi, che non sono facili da raccontare con le parole a nostra disposizione. Sembrano sempre più artificiali di quello che sono in realtà».

Ci parla del suo legame con la Basilicata?

«La Basilicata per me è casa, in particolare l’area di Lauria-Maratea. È l’unico posto rimasto stabile nella mia vita visto che ci torno da quando sono nata: è l’unico luogo in cui e di cui ho dei ricordi che vanno dall’infanzia fino a oggi. Casa è il posto che ri-conosci, in cui hai le memorie più durevoli. Casa è il posto in cui stai bene. Per me, quel posto, è qui. Dall’altro lato, la Basilicata è anche il suo potenziale inespresso, con dinamiche difficili da scalfire. C’è tanta rassegnazione, frustrazione, sfruttamento. Non basta che un posto sia bello, deve essere anche capace di offrire opportunità concrete di lavoro e di vita: mentre in Basilicata i numeri dello spopolamento e della disoccupazione parlano chiaro. La considero una ragione in più per tornare e lavorare dal Sud, per il Sud. Dopo una vita all’estero, ci voglio provare una seconda volta. Chissà se questa volta andrà meglio».

Potrebbe tracciare alcune ipotesi realistiche di sviluppo per la Basilicata – basate ovviamente sul southworking – fuori da ogni retorica?

«La pandemia ha fatto emergere una serie di trend che mettono in luce un nuovo modo di coniugare vita e lavoro: il non avere vincoli rispetto al luogo in cui poter portare avanti le proprie attività grazie al telelavoro e al lavoro agile porta a nuove tipologie di turismo e dunque a ripensare le destinazioni. Cogliere queste aspirazioni emergenti può essere un’opportunità unica per lo sviluppo locale dei borghi e delle aree interne, ma anche per le aziende e per i singoli lavoratori. Più che al southworking, guarderei al nomadismo digitale in generale. Ci sono oltre sei milioni di nomadi digitali nel mondo, e diverse realtà stanno puntando all’attrazione di queste persone. Penso per esempio a Santa Fiora in Toscana, o a Brindisi in Puglia, per quel che riguarda l’Italia. All’estero ci sono Malta, Madeira e la Croazia che sta addirittura portando avanti una riflessione sulla creazione di un visto particolare per i nomadi digitali».

Cioè?

«Sono dei viaggiatori particolari che hanno bisogno di servizi specifici. Se un territorio decide di esplorare la possibilità di diventare una meta per questa tipologia di visitatori, deve attivare una serie di servizi che per molte aree interne sono inesistenti. La banda larga in primis, una buona accessibilità, la disponibilità di spazi condivisi per svolgere le attività professionali, la presenza di realtà locali che offrano attività ed esperienze per il tempo libero di chi passa numerose ore davanti al computer. Significa anche lavorare sull’internazionalizzazione delle associazioni e delle aziende di un posto, partendo per esempio dall’apprendimento dell’inglese. Rispetto al turismo estrattivo e distruttivo che conosciamo, cosiddetto “mordi e fuggi”, è un fenomeno prezioso proprio perché i visitatori ambiscono a essere cittadini temporanei dei posti che attraversano. Si trattengono più tempo, vogliono partecipare alla vita delle comunità, sono più attenti allo spirito dei luoghi, cercano esperienze locali tipiche. Capire bene i bisogni e le aspirazioni di queste persone permette di sviluppare un’offerta integrata che non snaturi le specificità di un posto».

Basta questo?

«Non esistono soluzioni semplici per le aree interne, né credo si debba puntare su una “monocultura” turistica – a maggior ragione dopo ciò che ci ha insegnato la pandemia. Il nomadismo digitale, e in particolar modo il southworking, possono essere una parte della soluzione. Non si può prescindere dal disegnare una proposta di riposizionamento senza attivare processi partecipati. Le scelte calate “dall’alto” non funzionano più, e sono meno sostenibili di quelle fatte in collaborazione con le comunità locali. Anche su questo i programmi europei a gestione diretta possono essere d’aiuto per sperimentare nuove soluzioni condivise: penso al progetto “Beyond Cultural Tourism – Oltre il turismo culturale” (finanziato con 4 milioni di euro dal programma Orizzonte 2020), in cui abbiamo coinvolto l’Agenzia di promozione territoriale della Basilicata, diretta da Antonio Nicoletti. Per tre anni, l’Apt avrà l’occasione di stimolare processi collaborativi e partecipati per lo sviluppo di prodotti e servizi innovativi che attivino un modello “circulare” e sostenible di turismo culturale».

La sua attitudine sembra molto lontana da quella della canonica “scrivania” che un tempo era il sogno di ogni italiano. Come e dove si vede da qui a dieci anni?

«Vorrei continuare a fare quello che faccio – cioè sviluppare progetti europei nel settore della ricerca e dell’innovazione, da Maratea. Vorrei farlo in alternanza con due cose: da un lato, sviluppare in parallelo una seconda attività che mi permetta di sostenere le realtà significative basate in Basilicata mettendo a disposizione contatti, competenze e visioni. Ho ripreso contatti con diverse realtà che operano nelle aree interne da tempo: ArtePollino, per esempio, o Wonder. Più le conosco, più sento che si potrebbero sviluppare numerose progettualità connettendole a reti europee attraverso la progettazione, liberandole dalle dinamiche locali. Dall’altro, sento che lavorare in smartworking da qui mi permette di trovare un miglior equilibrio tra il lavoro da scrivania e le attività fisiche e manuali. Da quando sto qui, ho cambiato abitudini e ambizioni: credo che si possa alternare professioni “di testa” e lavori che ti fanno sentire viva fisicamente e mentalmente. Ho passato la mia vita sino a oggi in città, i prossimi dieci anni (almeno) li vorrei vivere qui: con il mare negli occhi e la sensazione di essere viva».

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