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CLAUDIO Baglioni con il suo “cantiere” del Convoi ReTour, questa sera, approda, dopo un lungo viaggio al PalaBasento di Potenza. In esclusiva per il Quotidiano del Sud, il cantautore, tra una pausa e l’altra del tour, si è sottoposto alle nostre domande.

Maestro, “Convoi Re tour” è uno show che da ottobre sta girando con successo l’Europa. Cosa c’è di “nuovo” rispetto al Baglioni di lavori precedenti?

«Un tour è per definizione un progetto dinamico. In un certo senso, assomiglia al jazz: c’è un tema di riferimento, ma poi i musicisti improvvisano e la musica cambia. Il nostro tema è l’idea del cantiere nel quale ci si ritrova per cercare di costruire un mondo che somigli un po’ di più alla parte migliore di tutti noi. Questa è la base, poi c’è il modo nel quale si vive l’atmosfera del cantiere e la si ricrea, sera dopo sera. Anche per questo divido il palco con un gruppo extra-large di ben tredici poli-strumentisti, che contribuiscono a questa ri-costruzione portando i mattoni della loro sensibilità, della loro esperienza, della loro musicalità. Ogni sera, eseguiamo quasi quaranta canzoni, per un concerto che supera le tre ore ininterrotte di musica. Forse non è un caso, se – mercoledì 17 – quando raggiungeremo Milano per l’ultima data, questo risulterà il tour più lungo e più serrato di tutta la mia carriera: 67 concerti in sole 15 settimane! Un primato assoluto per l’Italia. Non un “semplice” ReTour, ma un vero e proprio Re-cord-Tour!»

Oggi sarà in concerto a Potenza, l’ultima volta in Basilicata è stata nel 2009 a Matera che è stata appena nominata Capitale europea della culltura 2019. Ritiene che questo riconoscimento possa essere utile a far decollare, partendo dalla Cultura, un altro modello di Sud possibile?

«Credo sia un riconoscimento meritato e fondamentale. Solo la cultura, infatti, può aiutarci a costruire non solo un altro modello di Sud, ma un altro modello di Paese. La cronaca di tutti i giorni, purtroppo, ci mette davanti agli occhi una realtà che ci indigna e ci offende. Ma indignarsi e offendersi non è sufficiente: non esistono uomini liberi, ma uomini che si liberano. E, se vogliamo davvero cambiare le cose, dobbiamo prima di tutto cambiare noi stessi e, quindi, provare a cambiare loro».

Torniamo alla musica. Con le sue canzoni ha raccontato oltre 40 anni di storia italiana. Com’è cambiata la nostra società? Ci si emoziona ancora allo stesso modo per una canzone d’amore?

«E’ molto cambiata. Per certi versi in meglio, per altri, purtroppo, in peggio. La ferita più grande credo, però, sia il furto del futuro e della speranza. Molti anni fa, quando i miei genitori hanno lasciato la loro terra – l’Umbria – per venire a Roma, lo hanno fatto al prezzo di grandi sacrifici, morali e materiali, ma guidati dalla certezza che il futuro sarebbe stato migliore del presente e che li avrebbe ripagati di tutti quei sacrifici. E così è andata. Le generazioni di oggi, invece, hanno la quasi certezza che il loro futuro sarà peggiore del loro presente. E questo è un colpo mortale per loro. Gli essere umani – i giovani in particolare – possono rinunciare a tutto ma non alla speranza in un futuro migliore, perché un uomo senza futuro non è più un uomo.
Per quanto riguarda, invece, le emozioni, se non ci si emoziona i casi sono due: o la canzone non vale un granché o noi abbiamo perso la capacità di stupirci, emozionarci e sognare e siamo diventati impermeabili all’esistenza. Nel primo caso è sufficiente provare a cambiare canzone. Ma se dopo qualche tentativo ci rendiamo conto che anche le belle canzoni non ci fanno più effetto, allora il problema è serio. Molto serio. Un grande scrittore americano scriveva che un uomo che non sogna è come un uomo che non suda, perché accumula in sé riserve di veleno. Servono grandi sogni per fare piccoli passi avanti e se non siamo più capaci di sognare, non riusciremo a fare nessun passo verso un futuro davvero degno di sé e di noi».

I suoi esordi parlano di tanta gavetta in teatri di periferia prima di diventare amato e apprezzato dal grande pubblico, oggi a fare la selezione sono i reality. Ritiene che questo sia un bene o che sia un male non solo per i giovani talenti ma anche per la musica in generale?

«Quello della musica è un mondo complesso. Per certi aspetti, oggi ancora più di ieri. Internet e le nuove tecnologie offrono a tutti una possibilità, è vero, ma, proprio per questo, affermarsi è ancora più difficile. L’offerta è vastissima e chi è chiamato a scegliere – anche quando ha l’esperienza, la sensibilità e l’intuito necessario (tutte cose piuttosto rare, in verità) – fa molta fatica a farlo. Credo che i Talent abbiano avuto il pregio di riportare la musica al centro della ribalta, facendo capire che si tratta di un’industria complessa, nella quale sono impegnate molte energie e molte professionalità importanti. Ma ha anche due grandi difetti: da un lato, ti fa bruciare le tappe e ti illude di essere “arrivato”, quando, in realtà, sei solo all’inizio di un percorso tutt’altro che facile; dall’altro si presta a diventare fucina di personaggi “usa e getta”: meteore destinate ad illuminare il cielo per stagioni troppo brevi, per poi scomparire e lasciare il posto ad altre comete. Anche perché un artista può essere e, spesso, è un “personaggio”, ma non è detto che un personaggio sia necessariamente un artista. Tutto questo non è bello né per i giovani, né per la musica. Per quanto popolare, infatti, la musica è sempre una forma d’arte».

“Questo piccolo grande amore” è il brano che le ha regalato il successo e che le chiedono ancora oggi ad ogni concerto. Quale crede sia il segreto che consente a una canzone di resistere al tempo e diventare un classico?

«L’autenticità. Si dice che i classici siano quelle cose che non smettono mai di dire quello che hanno da dire. Ebbene, credo ci sia un’unica cosa che vale sempre, a qualsiasi latitudine, in qualsiasi epoca e in qualunque cultura: la verità. Nel piccolo universo della musica popolare, la verità non è qualcosa di eterno e immutabile. Quella – se esiste – è ben altra verità. La piccola verità della canzone è quella di chi si interroga con onestà intellettuale su se stesso, sugli altri e su questo viaggio strano e affascinante che chiamiamo esistenza e cerca di rispondere, nel modo più “vero” possibile, offrendo la propria “verità” agli altri, come contributo alla riflessione che – ognuno con i propri mezzi – porta avanti. Di solito – quale che sia l’argomento – se la canzone è vera, onesta, sincera e, quindi, autentica, difficilmente delude, perché, appunto, non smette mai di dire la piccola verità che ha da dire».

La canzone più bella che ha scritto o meglio quella a che per lei significa di più?

«E’ una domanda alla quale – in tutta onestà – non riesco a dare una risposta netta e definitiva. Potrei cavarmela dicendo che la canzone più bella è la prossima che scriverò, oppure dichiarare, come recita un verso di “Con voi”, che “è quella che ho suonato meno”. Sono tutte verità. Ma verità, inevitabilmente, parziali, che durano il tempo di una frase; perché, se ci riflettiamo con attenzione, la bellezza non è mai per sempre: dipende dal nostro sguardo, dal nostro stato d’animo del momento. Non è detto che una cosa che ci appassiona oggi lo farà allo stesso modo anche domani. Magari domani scopriremo qualcosa che ci appassiona ancora di più. E, chissà?, forse dopodomani torneremo sui nostri passi, riscoprendo la bellezza di ieri. Chi scrive, però, sa anche che le canzoni sono un po’ come i figli: le ami tutte, ma un po’ più delle altre ami quelle meno fortunate. Forse perché le cose più difficili, quelle così intime da risultare quasi incomprensibili, non sempre riescono ad incontrare il gusto del cosiddetto “grande pubblico” e, dunque, diventano una sorta di figli incompresi. Quel genere di figli ai quali i genitori riservano un affetto particolare, alimentato dalla speranza che, prima o poi, anche loro vengano compresi e amati come gli altri».

Il suo è un pubblico transgenerazionale, come si fa ad arrivare ad un pubblico così eterogeneo senza “tradire” sé stessi e la propria vocazione artistica?

«Una cosa semplice da dire, ma difficile da fare: rimanere se stessi. Credo che valga più o meno quello che ho detto a proposito delle canzoni. Ho sempre cercato di fare questo mestiere in modo intellettualmente e professionalmente onesto. Mi sono rifiutato di arroccarmi sulla rendita di posizioni fortunate, e ho scelto di rimettere, ogni volta, in gioco tutto e, anzi, di alzare un po’ di più la posta: tutto questo nella consapevolezza che la musica mi ha dato tanto e che l’unico modo degno per cercare di pareggiare i conti fosse, appunto, quello di rimettersi in gioco. E questo non in una logica di cambiamento fine a se stesso. Mi interessano e mi appassionano le novità che chiedono e portano crescita personale e artistica, perché sono le uniche ad alimentare e mantenere sempre in circolo l’energia più grande e importante di tutte: la creatività».

Nella sua carriera tanta musica, ma anche la tv insieme a Fabio Fazio che ha svelato un “altro” Claudio, molto autoironico e spiritoso. E’ così anche nella vita?

«Credo di sì, anche se credo spetti a chi mi conosce confermare o smentire. Non sempre l’idea che abbiamo di noi stessi corrisponde all’idea che gli altri hanno di noi. Mi riferisco alle persone che ci conoscono e ci frequentano davvero, dal momento che è molto difficile farsi un’idea di qualcuno attraverso un disco o qualche apparizione in tv. Credo che l’ironia sia una qualità fondamentale, perché segnala un elemento indispensabile per affrontare se stessi, gli altri e le lusinghe o gli sgambetti della vita: l’equilibrio. E’ l’equilibrio la chiave di quella serenità senza la quale l’esistenza è – sia nella buona che nella cattiva sorte – davvero inaffrontabile».

Dopo 33 album e migliaia di concerti in tutto il mondo, ha ancora la stessa voglia di raccontarsi e raccontare attraverso la musica?

«Vede: per un musicista i dischi, ma soprattutto i concerti dal vivo sono un po’ come i giorni per le “persone normali”. Se chiedessimo a un nostro amico: “Ma dopo tutti questi giorni, non sei stanco di avere davanti a te altri giorni?”, probabilmente sorriderebbe e non ci prenderebbe per folli solo perché ci conosce e ci vuole bene.
Raccontarsi e raccontare è un po’ come vivere. Anzi è vivere due volte: la prima vivendo, appunto; la seconda raccontando. E’ un grande privilegio, perché di fatto raddoppia, per non dire moltiplica, l’esperienza della vita.
Ora: chi, come me, ha avuto la fortuna di ricevere in sorte questo grande privilegio è bene che lo viva fino in fondo e che faccia di tutto per mostrarsene degno. Non so dire se ci riesco, ma una cosa è certa: non smetterò mai di provarci».

Un pensiero per gli amici lucani…

«Unitevi al cantiere ideale di ConVoi: la ricostruzione ha bisogno del contributo di tutti. Il cambiamento deve partire dentro ciascuno di noi, è vero, ma, se si riduce a un fatto personale, allora non fa molta strada. Ognuno di noi deve mettere in gioco idee, valori, energie, in una parola: se stesso. Perché il futuro è una città che va progettata e costruita insieme. Da soli possiamo fare molto; insieme molto di più. Ma solo con voi tutto diventa possibile».

m.agata@luedi.it

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