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Domenico Acerenza

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LA STORIA dello sport è costellata di eterni secondi. E’ la favola, o la maledizione, di quell’atleta, o di quella squadra che, seppur facendo molto bene, ha trovato nel suo stesso periodo storico un rivale, molto spesso anche un amico, che era un po’ più forte, un po’ più veloce, tanto da segnare quel distacco tale da vincere sempre, o quasi, rispetto all’eterno secondo.

Questa potrebbe essere anche un po’ la storia di un nuotatore lucano, originario di Sasso di Castalda: ovvero la storia di Domenico “Mimmo” Acerenza. E il suo amico-rivale è Gregorio Paltrinieri.

Addirittura nel mondo dello sport, per alcuni psicologi, l’arrivare sempre secondo si potrebbe tradurre anche con una sindrome, ovvero la “nikefobia”, terminologia greca composta da “nike” vittoria e “phobos” paura. Tradotto: paura di vincere. Ma questo non è il caso di Acerenza.

I nikefoboci, in allenamento danno il massimo, sono loro i migliori. Poi, in gara, si spengono, si trasformano e non riescono più a dimostrare quanto valgono. Sono gli ‘eterni secondi’, atleti di grande valore che nelle competizioni si bloccano, incapaci di dimostrare le loro eccellenti capacità tecniche e atletiche. Lavorano giorno dopo giorno, stagione dopo stagione per vincere, ma quando giunge il fatale momento di dimostrare quanto valgono non ce la fanno, qualcosa glielo impedisce. Ci si chiede che senso ha nello sport agonistico, di qualsiasi livello esso sia, che uno sportivo, il cui scopo principale è proprio vincere, motivo per cui si allena, suda, fa sacrifici, a un certo punto, quando è a un passo dalla vittoria, innesca involontariamente un meccanismo che gliela impedisce. E’ di certo incomprensibile. Gli esperti indicano in una percentuale che va dal 20% al 30% il numero di campioni mai saliti sul gradino più alto del podio, pur meritandolo ampiamente. Qualche anti-juventino (ma anche qualche juventino) affiancherebbe questa sindrome alla “Vecchia Signora” per le finali di Champions League, viste le sconfitte (sette) registrate. Nell’atletica, una disciplina in cui la componente mentale è fondamentale, vi sono decine e decine di esempi. Forse quello più eclatante è rappresentato da Tyson Gay, vincitore di un mondiale e sempre favorito in ogni gara, ma che poi si squagliava nella finale di fronte alla maggiore determinazione di Asafa Powell. Naturalmente, tutto questo prima che esplodesse il fenomeno Bolt.
Ma la storia dello sport è ricca di questi esempi. A volte la differenza tra la vittoria e la sconfitta è questione di centimetri, di istanti o di dettagli. Il confine tra primo e secondo posto è la sottile linea che divide la gloria sportiva da un decoroso piazzamento. In alcuni casi però essere il numero due diventa un’abitudine, e il rischio di venire ricordati come “eterni secondi” è alto.

Campione del mondo nella categoria 125 nel 2003 e nella 250 nel 2004 e nel 2005, Dani Pedrosa era una promessa del motomondiale, con la possibilità di guidare una Honda ufficiale e competere con i vari Stoner, Rossi e Lorenzo. Peccato che nella classe regina lo spagnolo abbia ottenuto soltanto piazzamenti, con tre secondi e tre terzi posti nella classifica generale. La sua calamita per il secondo posto è talmente potente che per poco non toglieva il mondiale 2006 a Nicky Hayden stendendolo in un tornante di Estoril. La nazionale olandese di calcio entra di diritto nella graduatoria degli “eterni secondi” per il suo pessimo feeling con le finali mondiali, con tre sconfitte in altrettanti incontri validi per salire sul tetto del mondo. Nel 1974 in vantaggio dopo neanche due minuti su calcio di rigore gli orange vennero rimontati dalla Germania Ovest padrona di casa, quattro anni dopo l’Argentina vinse davanti ai propri tifosi, questa volta ai supplementari, dopo aver rischiato il tracollo nei minuti di recupero. Stessa sorte è toccata ai neerlandesi in Sudafrica nel 2010, quando la rete di Iniesta ruppe l’equilibrio nell’extratime. Se nemmeno il calcio totale di Cruijff e compagni è bastato per portare la coppa in quel di Amsterdam potrebbe servire un sortilegio. Poi l’allenatore di calcio, Hector Cuper. Cresciuto calcisticamente nell’Argentina, l’ “Hombre Vertical” diventa allenatore dell’Huracan, riuscendo a portare una squadra con modeste aspettative a lottare per lo scudetto, perso con la sconfitta all’ultima giornata. Nel ’97 il Maiorca gli affida la prima panchina europea e lui ripaga la fiducia portando la squadra prima in finale di Copa del Rey, dove viene battuta dal Barcellona, poi di Coppa delle Coppe, con la Lazio di Nedved e Vieri che gli regala un’altra delusione. Nel 1999 il Valencia decide di puntare su di lui, e l’argentino ripaga portando gli iberici ad una clamorosa finale di Champions League, in cui il Real Madrid si impone con un comodo 3-0. Cuper non si dà per vinto e riesce nell’impresa di tornare a giocarsi la coppa con le orecchie nell’ultimo atto, ma stavolta è il Bayern Monaco a giustiziare gli spagnoli, per di più ai rigori. Il masochismo di Moratti convince il presidente nerazzurro a portare il tecnico a Milano, e così Cuper assisterà ad una delle più grandi disfatte della storia dell’Inter, il tragico 5 maggio. Almeno quella volta non arrivò secondo, ma terzo alle spalle di Juventus e Roma. Il suo ultimo anno in Italia è segnato dalla piazza d’onore in Serie A e dalla semi finale persa contro il Milan in Champions con due pareggi beffardi. Il caso di Hector Cuper è contro ogni legge di statistica e calcolo di probabilità.

Si può essere più sfigati di Cuper? Chiedetelo a Raymond Poulidor, per sette volte secondo nella classifica generale del Tour de France senza essere riuscito ad indossare la maglia gialla per un singolo giorno in una carriera condotta sempre tra i migliori al mondo. Amatissimo dai tifosi per il suo stile di corsa spregiudicato e per gli attacchi sulle montagne più dure, non è mai riuscito ad imporsi per la presenza di campionissimi come Anquetil e Merckx, che a cronometro erano in grado di guadagnare moltissimo terreno nei confronti degli scalatori puri come lui. Ma proprio Eddy Merckx, il “cannibale”, ha oscurato un altro grande ciclista, questa volta italiano, ovvero Felice Gimondi. Professionista dal 1965 al 1979, ottenendo complessivamente 139 vittorie, è stato un campione completo, capace di tenere sul passo, di vincere in salita, a cronometro e anche in volata, sia in grandi corse a tappe che in corse in linea di un giorno. È uno dei sette corridori ad aver vinto tutti e tre i grandi Giri, cioè Giro d’Italia (per tre volte, nel 1967, 1969 e 1976), Tour de France (nel 1965) e Vuelta a España (nel 1968), mentre tra le corse di un giorno si aggiudicò un campionato del mondo su strada (nel 1973) e alcune classiche monumento (una Parigi-Roubaix, una Milano-Sanremo e due Giri di Lombardia); suo è il record di podi, nove, al Giro d’Italia, corsa in cui ottenne anche sette vittorie di tappa. Nonostante la sua carriera sia coincisa in gran parte con quella del rivale “cannibale” Eddy Merckx, è stato in grado di ottenere numerosi successi avendo avuto, rispetto al belga, anche una maggiore longevità ad alti livelli, grazie alla vittoria del Tour de France del 1965 e quella del Giro d’Italia del 1976. Non solo c’è anche un grande bel dualismo da raccontare e qui non si può parlare di “secondo” perché per professione, questi sono numeri uno: Walter Zenga e Stefano Tacconi. Il disegno del destino li ha voluti così, tracciando per i due portieri strade convergenti. Crescono entrambi nel vivaio nerazzurro, quando Tacconi lascia la Sambenedettese arriva Zenga. L’Inter sta per richiamare Stefano e alla fine punta sul più giovane Walter. Tacconi allora va alla Juve, e qui comincia l’infinita battaglia a suon di battute. Che si protrae in nazionale. Non contenti, i duellanti al tramonto delle loro carriere passano dal derby d’Italia a quello di Genova, Stefano parte Genoa e Walter parte Samp. E il più giovane è dall’altra parte del campo quando Stefano dice addio al pallone (Samp-Genoa 3-2).

Ma torniamo al lucano Acerenza. La sua “criptonite”, come detto, è Gregorio Paltrinieri. Il campione olimpico in carica ha un palmares davvero invidiabile e la dimostrazione della sua forza è arriva nelle ultime settimane, dove nei campionati italiani in vasca e quelli in acque libere ha fatto il pieno di medaglie d’oro. Quella più importante è arrivata nel 1500 stile libero, dove ha anche polverizzato il suo precedente record europeo. Proprio in questa gara è andato in scena l’ultimo atto della storia di Acerenza. Sì, perché al Sette Colli di Roma, mentre Paltrinieri faceva il record europeo, il lucano stabiliva il suo record personale che gli faceva vincere solamente, e solamente in questo caso è davvero un eufemismo, la medaglia d’argento. Acerenza è, forse, nel suo miglior periodo di forma, ma si sta trovando davanti un Patrinieri che allo stesso tempo sta nuotando come un delfino con il turno innescato. Insomma, la favola di Acerenza va avanti, sperando che da eterno secondo si possa trasformare in uno splendente primo, scovando, come fa Superman nei film e nei fumetti, l’antidoto alla criptonite Paltrinieri. E se proprio non ci dovesse riuscire, speriamo che insieme alle prossime Olimpiadi possano rimpingua il medagliere azzurro.

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