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Riprendo un articolo che Paolo Jedlowski, sociologo “della memoria” e docente dell’Unical, ha scritto per il Quotidiano in occasione dell’incontro con lo scrittore Petros Markaris al recente Festival del giallo, a Cosenza. Parlando ai giovani – ha scritto Jedlowski – Markaris ha detto che non si deve smettere di resistere. A chi dal pubblico gli ha fatto osservare che l’avversario contro cui combattere oggi è meno chiaro di un tempo (identificare i dittatori era facile: ma chi governa oggi la finanza mondiale?) ha risposto con passione: “resistere, affermare con la pratica i valori in cui si crede, è possibile”. Così come è possibile e necessario, ha detto, praticare il ricordo: ricordare i sogni di chi ha combattuto prima di noi, le sconfitte e le loro ragioni; e la povertà, soprattutto: perché solo chi riconosce la propria povertà può combatterla. Qui, mentre parlava, pensavo – ha scritto il sociologo – a Reality di Matteo Garrone: poveri d’Italia che la propria povertà la misconoscono comprando ceramiche kitsch e sognando di partecipare a un reality show. Se non riconosci che sei povero, non aspiri neanche ad alcuna emancipazione. La povertà non ammessa è il rimosso che condanna all’irrealtà la coscienza.
Il pezzo, come è nello stile di Jedlowski, è suggestivo; e ci ho riflettuto a lungo comminando nell’orto – Che bello: stanno spuntando i primi broccoli neri. Resta però una questione di fondo, anzi una definizione preliminare sulla quale accordarsi. Che cos’è la povertà?
Se è solo una questione di reddito, allora siamo tutti dannatamente poveri, anche quelli che hanno un’istruzione che cinquant’anni fa li avrebbe fatti rientrare a pieno titolo fra i benestanti. Se è una questione di coscienza (non aggiungo “di classe” per non essere accusato di utilizzare categoria concettuali vetuste) credo che l’irrealtà – come lo erano e sono certi sogni di rivoluzione – sia l’unico vero grimaldello per forzare i lucchetti dei recinti della distribuzione sociale dei mezzi di produzione e non dare più per scontato che solo “l’avere” dia possibilità, che il reddito e il patrimonio siano i parametri per misurare la povertà. E ne sono convinto mentre raccolgo le olive da schiacciare.
Tornando in città, però, mi basta di essere alla rotatoria autostradale di Rende per avvertire la sensazione che le migliaia di studenti universitari che incontro non hanno coscienza né della loro ricchezza – quella delle “possibilità” che già solo l’aver avuto accesso all’istruzione universitaria comporta – né della loro povertà materiale, dalla quale pochi riusciranno ad affrancarsi visti i magri stipendi a cui anche i lavori intellettuali sono oggi destinati. E mi sento un privilegiato: ieri ho raccolto delle succulente susine verdi. Inestimabili.

 

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