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Il Partito democratico somiglia alla trama del film “Dieci piccoli indiani”, diretto da regista René Clair nel 1945 e tratto dall’omonimo romanzo di Agatha Christie. I protagonisti muoiono a uno a uno. E’ la metafora di un partito nato nel 2007 con nobili intenzioni e luminose prospettive ma che si è avvitato su stesso perché, invece di fondere le culture di provenienza (quella post comunista, quella post democristiana e in modo assai marginale quella post socialista e laica), o di amalgamarsi come ebbe a dire D’Alema, si è semplicemente aggregato. Tenendo in vita correnti e sottocorrenti che si sono ricattati a vicenda. Chi sono i dieci piccoli indiani? Romano Prodi, Rosy Bindi, Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Franco Marini, Enrico Letta, Dario Franceschini, Giuseppe Fioroni, Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi. Sì, anche il rottamatore. Perché quando toccherà il suo turno è molto probabile che, nel frattempo, il Pd si sarà scisso. Anche fuori dal Pd altri piccoli indiani sono stati fatti fuori implacabilmente. Pierferdinando Casini, Gianfranco Fini, Raffaele Lombardo, Antonio Di Pietro, Mario Monti, Antonio Ingroia, Paolo Ferraro, Oliviero Diliberto, Angelo Bonelli, Emma Bonino. La seconda Repubblica è finita e la terza tarda ad arrivare. Ci sono partiti lacerati al loro interno, dal Pd all’Udc, da Idv a Rifondazione comunista, da Fli a Mps e poi i micro partitini che scindono l’atomo. L’unico partito che sta in sella, con rosee prospettive, è quello del Cavaliere. Il partito-azienda, il partito di plastica, il partito carismatico, il partito monarchico, il partito imperiale, ecc ecc, funziona ancora nell’immaginario salvifico e codino dei supporter. Il Pdl è come la Settimana enigmistica, «La rivista che vanta innumerevoli tentativi d’imitazione!». Un futuro non proprio roseo per le persone normali e senza grilli per la testa. Al centro e in periferia. Guardate il Pd calabrese. Il commissario Alfredo D’Attorre, nonché deputato di Catanzaro, cui è chiesto di andarsene, mette in scena “Il soldato Popov”.

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