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 Sto elaborando il lutto: cinquanta euro di semi biologici hanno prodotto un risultato miserabile. E la prima riflessione che mi viene è che l’orto – come altre cose pratiche – sì fa e non si dice (in anticipo). Nel senso che la teoria è cosa ben diversa dalla pratica, e quando tra la ricchezza della prima e la povertà della seconda c’è troppo scarto, la frustrazione è tanta; la disfatta brucia.
Sono state settimane dure:  il caldo di aprile, il freddo di maggio, hanno messo al tappeto il mio vivaio e il mio umore. Ma ho avuto il tempo di riflettere su un aspetto importante. Abbiamo perso il diritto di perdere, il diritto di sbagliare; ci è stato imposto l’obbligo della vittoria a tutti i costi.
Credo, invece, che non ci sia niente di più appagante – neanche la più grandiosa delle vittorie – quanto il sapere di essere se stessi, apprezzati per quello che si è, anche nella sconfitta.
Dopo una lunga battaglia, la cosa più bella è solo il ritorno a casa, con o senza lo scalpo del nemico, e sentirsi accolto. E non parlo di rassegnazione dignitosa.
Io torno nell’orto: e ricomincio daccapo. E pianterò anche un germoglio di cultura della sconfitta…

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