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«Sono senza sigarette e la ruggine mi assale. Il mio alibi è altrove tra le braccia di un tale. Sono qui per un disguido ma il nemico non la beve. Sono pronto alla fuga, ma nessun mi insegue», cantava Sergio Caputo all’epoca in cui ascoltarlo mi piaceva perché cantava gli effetti stroboscopici del destino di personaggi perdenti, arenati e disfatti, nei ruggenti e surreali anni Ottanta.  E mi è tornato in mente non so perché: per la fuga o per l’alibi?
Per dire quello che volevo dire vanno bene entrambi; perché entrambi sono ammantati di accezione negativa: con disappunto parliamo di codardi che fuggono, di fuga dalle proprie responsabilità, di fuga dalla realtà; di cervelli in fuga. E con disappunto guardiamo alla varia umanità in fuga che sbarca sulle nostre spiagge.
Ed entrambi sono però affascinati: perché implicano l’essere (o il tentativo di essere) in un altro luogo, per essere sé stessi: pavidi, irresponsabili, visionari; assunti.
Mollare tutto, fuggire è perciò un diritto: il diritto alla felicità di chi, rimanendo, sarebbe infelice, frustrato, depresso, oppresso, corrotto, sfruttato, umiliato o ucciso.
Mollare tutto, fuggire è (perciò, anche) vitale: salva la vita e richiede un’adrenalina che la stanzialità non prevede.
Dunque: chi vuol restare resti, senza rompere; chi vuol fuggire, fugga. Come può.
Anch’io sono pronto: raccolgo due broccoli e arrivo.

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