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Un amico mi ha chiesto quando fossi tornato a scrivere su questo blog. Gli ho risposto che nell’orto l’inverno è la stagione del riposo, del sonno e del silenzio e della meditazione. Credo. E comunque così mi piace pensare.
Mio padre, invece, nell’orto c’è sempre: non riposa mai, non dorme; blatera sempre, anche d’inverno. Ancora mi parla della luna e di altre cose del genere, e mi rendo conto che per fare l’orto bisogna saper un po’ leggere il libro del mondo*. Ma io non lo so fare. Poto le mie viti quando è troppo presto o è tardi, e “piangono” al primo taglio: segno che non le so ascoltare. E quando vedo quella inutile, evitabile, sofferenza, mi tornano in mente certi frammenti di proverbi che da piccolo avevo mandato a memoria, e che mi ricordano che avrei dovuto potare a gennaio. 
Lo stesso amico mi ha chiesto che rapporto ho con la terra. Gli ho risposto “non lo so”. Ma intendevo dire “di conflitto”. Esattamente come con mio padre: non dico di non essere in armonia con entrambi; dico solo di essere asincrono rispetto ai loro tempi.
In questa stagione, da novembre a febbraio, io odio la campagna – forse l’ho già detto una volta – l’erba bagnata e il terreno molle. Amo, invece, i paesaggi urbani; la pioggia che scivola sulle facciate ipermoderne dei grattacieli. Il riverbero delle ampie finestre dietro le quali freme la vita metropolitana; il caleidoscopio dei palazzi di vetro.
D’inverno amo l’altrove; ovunque esso sia.
Amo l’attimo, più di ogni altra cosa, quando la nostalgia per la campagna che rinasce a primavera mi assale, di sorpresa, perché magari lo sguardo mi è caduto su un giallo dente di leone sbocciato timidamente in una umida crepa tra le sfumature di grigio del cemento armato. Lo amo perché so che quello è il momento di tornare…

(*cit: Fabrizio De André…)

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