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Ogni giorno si scoprono parole nuove. C’è chi poi le approfondisce per lavoro, e chi le lascia rimanere un sentito dire; chi prende a usarle, spesso a sproposito, e chi le snobba per vezzosa avversione alle novità.  
E se dovessi dire (non che qualcuno me lo abbia chiesto) qual è la parola – tra quelle scoperte nell’anno appena trascorso – che mi ha affascinato di più, non avrei dubbi: resilienza. Non è uno stranierismo – dunque non storcano il naso i puristi della lingua – ed anzi, come suggerisce lo psicologo sportivo Pietro Trabucchi, deriverebbe dal latino “resalio”, iterativo di “salio”, con collegamento suggestivo tra il significato originario di “resalio”, che connotava anche il gesto di risalire sull’imbarcazione capovolta dalla forza del mare.
Utilizzato in origine nella metallurgia per indicare la capacità di un metallo di resistere alle forze che vi vengono applicate (dunque come contrario della fragilità) il significato del termine, in ambito psicologico,  si può riassumere nell’atteggiamento di andare avanti senza arrendersi, nonostante le difficoltà. Un persona resiliente è l’opposto di una vulnerabile.
Per dare corpo alla definizione potremmo usare il celebre brano tratto da Il mondo come io lo vedo (1934) di Albert Einstein: “A crisis can be a real blessing to any person, to any nation. For all crises bring progress. Creativity is born from anguish, just like the day is born from the dark night. It’s in crisis that inventiveness is born, as well as discoveries made and big strategies. He who overcomes crisis, overcomes himself, without getting overcome”. Ma il concetto è, secondo me, ancora più complesso.
Ed è l’applicazione del termine in ambito sociologico che mi affascina di più. Il concetto si sta infatti affermando all’interno dell’analisi dei contesti sociali che si determinano a seguito di gravi catastrofi di tipo naturale o di crisi economiche, o dovute all’azione dell’uomo quali, ad esempio, attentati terroristici, rivoluzioni o guerre. Ed è a proposito delle migrazioni che viene utilizzato più spesso.
Resiliente è, si dice, un popolo che a seguito di catastrofi naturali o sociali non abbandona il proprio Paese, ma resiste. Non lo è quello che sceglie di andare via, di mollare; quello che predilige una reazione “da rifugiato”.
Non so.
Conosco molti rifugiati; amici, li definirei. E per nessuno di loro mi sentirei di giudicarli “a bassa resilienza”. Provengono da Siria, Palestina, Somalia, Eritrea. Io, al loro posto, cosa averi fatto? La fuga non è un’altra specie di resilienza? E la vita dello stesso padre della Teoria della relatività e premio Nobel per la fisica non è stata interamente segnata dalla fuga da numerose avversità?

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